Tu chiamale se vuoi cover… II parte

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Ben ritrovati, dopo aver visto nella prima puntata di questa inchiesta cosa significhi all’estero fare una “cover”, diamo uno sguardo in casa nostra.

Bisogna subito dire che in Italia le cover più note sono state spesso una traduzione di brani già noti all’estero, soprattutto negli anni sessanta, con la beat generation italiana e con la musica pop, che ha tradotto un numero enorme di brani inglesi e americani spesso all’insaputa del pubblico, che credeva che l’interprete fosse anche l’autore originale.

La traduzione e l’adattamento della melodia però spesso possono portare a incongruenze o addirittura cambi totali rispetto al testo originale: basti fare l’esempio di “Una città per cantare” di Ron, il cui originale è “The Road” di Danny O’Keefe. Talune volte però la traduzione può addirittura migliorare la canzone originale, come nel caso di “Se perdo anche te”, traduzione di Franco Migliacci per Gianni Morandi dell’originale di Neil DiamondSolitary Man”.

gloriaDobbiamo anche dire, però, che quando c’è uno stravolgimento totale del testo originario, il termine cover comincia ad andare stretto, e forse sarebbe il caso di usare un termine più corretto come “remake” o adattamento. Negli anni Sessanta impazzava anche il fenomeno dei “tributi“, quando cioè artisti di successo eseguivano una cover per onorare e omaggiare (in inglese “to pay tribute to“) un artista da loro apprezzato (ad esempio Sting ha reinterpretato con successo “Little Wing” di Jimi Hendrix), con la nascista delle “cover band” e delle “tribute band”, gruppi che riproducono fedelmente le musiche, i testi e a volte anche i look di un altro gruppo. In Italia, artisti come Fabrizio de Andrè e Lucio Battisti e hanno ricevuto numerosissimi tributi, come nel caso di “Innocenti Evasioni”, 3 album tributo a Lucio Battisti che annoveravano tra gli interpreti Fabio Concato, Nek, Giorgia e Samuele Bersani.

In Italia, sempre negli anni ’60 e ’70, ci fu anche il fenomeno degli interpreti stranieri, specialmente angloamericani, che riprendevano canzoni italiane: basti citare “Help Yourself” di Tom Jones il cui originale era “Gli occhi miei” di Dino e Wilma Goich e “You’re my world” di Cilla Black il cui originale è “Il mio mondo” di Umberto Bindi.

Negli anni successivi le cover e le reincisioni delle canzoni italiane sono spesso state fatte da cantanti latino-americani, giapponesi o dell’ex-blocco sovietico.

Facendo una breve carrellata delle cover italiane, spiccano alcuni brani notevolissimi come “You Were On My Mind” del duo folk Ian and Sylvia, resa famosa dall’Equipe 84 con il titolo “Io ho in mente te“, “La primavera” cantata da Marina Rei e che è una traduzione della canzone “You To Me Are Everything” dei The Real Thing, oppure interi album di cover come “Fleurs” di Franco Battiato, “Io canto” di Laura Pausini o “Acchiappanuvole” di Mango: dobbiamo però dire che la più prolifica interprete di cover in Italia è stata senz’altro Mina, che per molti anni ha pubblicato ogni anno un doppio album con un disco di inediti e uno di cover.

Dall’altro lato invece troviamo “Azzurro” di Adriano Celentano ricantata da Ken Dodd con il titolo “”Blue Skies“, “Gloria” di Umberto Tozzi ricantata da Laura Branigan in versione dance, “Io che non vivo (senza te)” di Pino Donaggio ricantata nientepopodimeno che da Dusty Springfield ed Elvis Presley con il titolo “You don’t have to say you love me”, “Legata ad un granello di sabbia” di Nico Fidenco reinterpretata da Cliff Richard con il titolo letterale “A little grain of sand“, “Linda” dei Pooh tradotta da Miguel Bosé, “Lontano dagli occhi” di Sergio Endrigo cantata da Petula Clark con il titolo “If Ever You’re Lonely” e per finire la stupenda “Parole parole” di Mina e Alberto Lupo ricantata dalla coppia d’eccezione formata da Dalida e Alain Delon (“Paroles, paroles“).

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