“The Doors Live at The Bowl ’68”, il viaggio di una generazione

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The Doors

“The Doors Live at The Bowl ’68” non è solo un concerto ma un vero e proprio viaggio nei meandri di un’intera generazione. Sarà il fascino intramontabile che avvolge la figura mistica di Jim Morrison, l’impronta jazz – il tocco magico dell’improvvisazione del batterista John Densmore, il dito a martello e il modo di suonare la chitarra di Robby Krieger o la creatività ed il talento di Ray Manzarek e le sue inseparabili tastiere ma la consapevolezza è che musica e poesia rappresentano una via a senso unico verso luoghi ancora ignoti. Lo spartiacque tra un sogno e la disillusione, tra gioia di vivere e devozione, trasgressione e conformismo. Tutto racchiuso in poco più di 70 minuti di concerto.

Due atti, 4 telecamere, 8 canali di registrazione a bobina, pellicola da 16mm, 52 amplificatori, regia di Paul Ferrara, un allora sconosciuto Harrison Ford aiuto regista, il fotografo Frank Lisciandro, Mick Jagger, Hollywood Bowl. In scena la sera del 5 Luglio 1968 The Doors fanno registrare il tutto esaurito costringendo la polizia di Los Angeles a deviare il traffico dal pomeriggio al tramonto per le 18.000 presenze registrate: gli esordienti Stoppenwolf e i Chambers Brothers designati come gruppi spalla introducono una serata destinata a rimanere nella storia. Un documentario di 21 minuti accompagna i presenti alla visione del film-concerto tra interviste ai tre membri ancora in vita del gruppo, al tecnico del suono Bruce Botnik (suo il maggior contributo) ai Chambers Brothers e così via: l’atmosfera è surreale nonostante sono passati quasi 50 anni da quella magica serata dove si può apprezzare tutta l’espressivita dei Doors. Amarcord è la parola d’ordine.

The Doors Live At The Bowl '68 | Locandina
The Doors Live At The Bowl ’68 | Locandina

L’attenzione dei presenti si focalizza sul frontman e le sue stravaganti interpretazioni ma un ruolo fondamentale è affidato a Manzarek, Densmore e Krieger: precisi e tempestivi a riportare sul palco Jim Morrison ogni qualvolta sembra estraniarsi. Danza, canta, diverte ed intrattiene il pubblico con la sua performance; il suo giovane ed innocente sorriso da un tocco magico a tutta la faccenda, complice le inquadrature in primo piano ad opera della regia. Nel documentario introduttivo il trio racconta che nel pre-concerto erano tutti a cena con Mick Jagger che cercò di convincerli ad avere una scaletta: una pratica inusuale per i Doors che anche quella sera ripeterono l’esperimento dell’improvvisazione, fatto salvo il sound-check (effettuato per la prima ed unica volta quella sera) ma la pecca è il suono fiacco della chitarra di Krieger, causa il non utilizzo di tutti gli amplificatori a disposizione.

Una lunga introduzione tipica dell’instrumental rock che ha caratterizzato quegli anni apre la set-list: “When the Music is Over” (canzone composta da Morrison al bancone di un bar dopo aver udito il proprietario del locale dire “When the show goes down, turn-off the light”) è una lunga ballata che serve al gruppo per abituarsi a quella location per loro inusuale (fino ad un anno prima avevano suonato solo nei club) passando per “Alabama Song (Whisky Bar)”: qui il momento del medley improvvisato di cui ci parlano Manzarek e Krieger nel documentario intorduttivo “Backdoor Man/Five to One/Backdoor Man” e l’intensità della musica che si lascia apprezzare in toto; Densmore si dice soddisfatto di quella sera conscio del fatto che l’intera faccenda non passa di certo inosservata.

“The WASP (Texas Radio and the Big Beat)” è un dialogo con il pubblico (la canzone sarà inserita poi nell’ultimo album della band californiana “L.A. Woman”) e la ballata superlativa “Hello, I Love You” mette in scena il momento di massima intensità unita a “Moonlight Drive”. Qui il momento del “viaggio” con “Horse Latitude”, “The Little Game”, “The Hill Dwellers”, “Spanish Caravan”, “Hey, What Would You Guys Like To Hear?”, “Wake Up” che è un invito ai presenti ad alzarsi in piedi, invito che sortisce effetto dal momento che “Light My Fire” fa ballare tutta l’arena. La poesia “The Unknow Soldier” è l’intro all’atto finale: “The End”, i suoni psichedelici, l’allucinazione di Morrison (che afferma di vedere una falena sul palco chiandosi con il capo sulla pedana) e la teatralità fanno da padrone prima di salutare tutti.

C’è chi ha avuto la possibilità di vivere quegli anni c’è chi invece ha avuto modo di apprezzare in toto per la prima volta una performance dei Doors, tanti osannati quanto maledetti dalla pubblica opinione: in entrambe i casi non c’è alcun motivo per rimpiangere il fatto di essere nati tardi che ad ogni epoca è legato uno o più avvenimenti. La consapevolezza è che tra primo piano, carrellata ottica o frames queste riprese sono molto amatoriali, genuine, semplici: quella semplicità perduta che si concretizza nell’inciso d’apertura del documentario “You have had to be there” anche se “seppur ci foste stati non avreste ricordato niente”. Parola di Bruce Botnik.

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