The Bloody Beetroots: “Hide”. La recensione

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The Bloody Beetroots - HIDE - Artwork

Buona la prima si passa alla seconda, è così che The Bloody Beetroots sbarca in discografica con “Hide“, fratello minore di “Rombodrama” arrivato dopo quattro anni. Classico esempio di come fare successo prima fuori e poi in casa propria, Bob Rifo, padre naturale dei The Bloody Beetroots, tenta la fortuna in Italia a distanza di anni rispetto al successo riscosso nel resto del mondo già a partire dal 2007. Colonne sonore, Coachella, live da delirio, tutto questo viene riconosciuto come The Bloody Beetroots all’estero, ma perché qui stenta ancora a decollare? Probabilmente non siamo pronti ad accettare live performance ad alto tasso di energia, o forse siamo così impegnati ad accettare il fenomeno indie in ritardo di un decennio che probabilmente metabolizzare una botta di vita come quella del duo elettropunk italiano ci risulta ancora difficile.

The Bloody Beetroots - HIDE - Artwork
The Bloody Beetroots – HIDE – Artwork

“Hide” rappresenta il secondo tentativo di svolta, e se il primo in realtà è riuscito, con il successivo non può che derivarne solo il meglio. Nascondersi sembra essere la priorità dei protagonisti di questa storia “elettronica“, ma quale sarà il motivo? Il banale voler restare fuori dallo showbiz nascondendo il proprio volto ormai è stato già adottato come stile di vita dai Daft Punk, ma caschi meno complessi e maschere da luchadores sembrano riscuotere tanto successo così che Tommy e Bob hanno deciso di non toglierle più. Rapper, chitarristi e pietre miliari della musica poprock hanno preso parte ad “Hide” mascherandosi musicalmente e prendendo parte all’irriverente elettropunk dei The Bloody Beetroots in una maniera quasi irriconoscibile. I suoni non risultano cambiati né adeguati ad una discografia meno internazionale, ma di certo un cambiamento è avvenuto, e se la priorità prima poteva essere mixare, al momento sembra essere appunto “mascherare“. La maschera non nasce per celare il viso e nascondersi dalla folla, ma viene indossata per protesta, come nella storia è stata indossata da numerosi personaggi per poter sfuggire al riconoscimento in seguito agli atti vandalici fatti, appunto, per protestare.

L’irriverenza del punk mista all’energia dell’elettronica insieme alla storia del rock si fondono per dare vita ad un genere unico, ormai marchio di fabbrica dei The Bloody Beetroots. “Hide” si presenta compatto e può essere quasi collocato nella categoria dei concept album sia per l’ascolto che per la filosofia di base. Sam Sparro, Chromeo e Paul McCartney dimostrano come generi differenti possono convivere in brani come “Glow In The Dark“, “Please Baby” e “Out Of Sight” così solennemente elettroniche. Non solo fusione di generi diversi ma anche accorpamento di nomi illustri della musica vincitori di Grammy come Greta Svabo Bech e Peter Frampton.

All’ascolto di brani come “Chronicles of a Fallen Love” sarete quasi trasportati in un’altra dimensione, quasi come se quell’ambientazione elettronicamente grigia e postindustriale non fosse mai esistita. Escursioni dubstep miste a forti sfumature electropunk ci risultano così gotiche che quasi non sembrano adatte al dancefloor. La versatilità con cui Rifo riesce ancora una volta ad adattare il concetto di performance live al dancefloor ci fa apprezzare anche le escursioni più “tamarre” dell’album. Ricordiamo con affetto l’espressione “the church of noise” e anche se questa definizione risulta essere passata, a mio avviso ancora una volta risulta essere valida per un album come questo, e più nello specifico per brani come “Raw” con Tommy Lee così genuinamente “justiciana“, e “Spank” degna traccia apertura di un album di quindici brani, opposta alla raffinata “The Girls (Around The World)” con Theophilus. Un album così pieno di sorprese quasi da non essere pronto per la nostra discografia nazionale, ma orientato verso i lati più esposti della nostra musica pronta a sbarcare negli USA. Così diverso e così stranamente interessante rispetto al resto, “Hide” arriva quasi alla fine di un anno così musicalmente interessante. Avranno fatto bene i Bloody? Ai “postumi” l’ardua sentenza.

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