Sting: “57th & 9th”. La recensione

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Anticipato dai singoli “I Can’t Stop Thinking About You”, “Fifty Thousand” e “Petrol Head”, è uscito negli ultimi mesi del 2016 “57th & 9th”, il dodicesimo album in studio da solista del cantautore britannico Sting che è anche il suo primo album rock da 13 anni a questa parte e il suo dodicesimo disco in studio. Il disco ha scalato le classifiche di mezza Europa e si è piazzato anche nella Billboard 200.

Il nuovo lavoro di Gordon Matthew Thomas Sumner è stato registrato in tre mesi e la scadenza così breve ha dato al disco quel senso di urgenza che altrimenti non avrebbe avuto, come ha affermato lo stesso Sting: il nome del disco è preso dall’incrocio di New York che lui attraversava ogni giorno per andare a registrare negli studi di Hell’s Kitchen e l’album era stato anticipato durante tutto il 2016 da vari post che sono stati pubblicati sui vari profili social del cantante.

Il disco ha visto la collaborazione di Dominic Miller, Lyle Workman, Josh Freese e Vinnie Colaiuta e ha avuto una gestazione lunga e segna un ritorno al passato per Sting, come dimostra la prima canzone e il primo singolo scelto, “I Can’t Stop Thinking About You”, pezzo marcatamente rock che segna un ritorno agli amori del passato e alle atmosfere di dischi come “…Nothing like the sun”. Il pezzo successivo, invece, “50.000“, è stato scritto la settimana in cui è morto Prince ed è dedicato alla memoria di tutti i musicisti morti nel 2016 come David Bowie e Glenn Frey.

Down, down, down” lascia un senso di inquietudine interiore che credo sia voluta e che introduce benissimo “One Fine Day“, una canzone che parla dei cambiamenti climatici causati dalle attività dell’uomo in maniera accattivante senza essere aggressiva: “Pretty Young Soldier” fa riemergere il crooner che è dentro Sting e che era venuto spropositatamente alla luce con il precedente disco “The last ship” mentre “Petrol Head” è il pezzo più rock del disco, quasi ai confini del grunge.

Cover
Sting – “57th & 9th” – Cover

Le due tracce “Heading South on the Great North Road” e “If You Can’t Love Me” sono legate tra di loro e sono uno viaggio nel passato musicale di Sting, la prima grazie alla sua narrazione quasi medioevaleggiante e la seconda grazie a quegli echi di quel jazz rock con cui Sting ha fatto impazzire tutti negli anni Ottanta, una sorta di diario di viaggio per tracciare nuove coordinate e nuove rotte. E questo succede con le ultime due canzoni del disco: “Inshallah” è una vera e propria preghiera che mostra come l’amore di Sting per i ritmi africani non sia mai sopito e “The Empty Chair” è una canzone dedicata al giornalista americano James Foley che è stato rapito e ucciso dai militanti dell’ISIS in Iraq.

Il nuovo lavoro di Sting è un album breve, denso e compatto, pieno di nostalgia e di sensazioni che richiamano ad un tempo passato e ad una tranquillità che forse non c’è più: lo sguardo del cantautore britannico è sempre puntato verso l’attualità (e lo dimostrano le sue canzoni sul terrorismo islamico e sui cambiamenti climatici, come fece ai tempi della Guerra Fredda con “Russians”) e non ha paura di raccontare i tempi odierni con il suo stile e con la sua classe. “57th & 9th” sembra un piccolo antipasto di qualcosa che potrebbe venire a breve, un ritorno al passato che moltissimi fans si auspicano rispetto ai precedenti dischi “The last ship” e “Songs from the Labyrinth”, considerati da molti troppo cerebrali e di scarso impatto verso il pubblico: a noi interessa che la qualità di mister Sumner rimanga intatta e migliori come il vino che invecchiando diventa più buono. Del resto interessa relativamente poco.

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