Queens of The Stone Age: “Villains”. La recensione

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Dischi come “Villains” sono destinati a creare uno spartiacque violento tra due fazioni diametralmente opposte, e forse l’intento dei Queens Of The Stone Age, oltre che dare vita al settimo disco, voleva essere proprio questo. Villains nasce sotto la buona, e raccomandatissima, stella di Mark Ronson, Re Mida della produzione musicale internazionale.

Le ultime notizie dal fronte del rock più cattivo e scuro dell’ultimo ventennio risalgono al 2013, a “…Like Clockwork“, album studiato nei minimi particolari, lontano anni luce dalle Desert Session, dai Kyuss e dai vecchi pilastri musicali del repertorio discografico di Josh Home e (vecchi) compagni.

L’album ha avuto un grande successo, ma ciò che ha rappresentato una grande speranza di ritorno alle origini  per i fedelissimi è stato “Post Pop Depression“, album collaborazione con Iggy Pop, piccolo capolavoro musicale dalle sfumature 70’s e una sporcizia compositiva degna di nota. “Villains” ci riporta alla realtà e conferma il cambio di registro che sicuramente ferirà al cuore il vecchio seguito, si proporrà come album simbolo per le nuove leve, e incuriosirà una discreta parte di seguito attirando i più esigenti continuamente alla ricerca del cambiamento, musicalmente parlando.

Il disco suona bene, la qualità musicale è evidente sin dal primo ascolto, i 9 brani toccano un ventaglio di generi che apparentemente sono lontani dalla cattiveria dei Queens of the Stone Age, ma alla fine rappresentano la logica evoluzione coerente con la scelta di affidarsi alle mani di Ronson. “Villains” appare eccessivamente pulito in alcuni passaggi tanto da abbandonare le lande desolate degli ultimi sprazzi di stoner rock e rifugiarsi in un boogie debolmente funk ad opera evidentissima del giovane produttore londinese. Alcuni generi appartengono a momenti storici precisi, nel caso dei Queens Of The Stone Age, una generazione orfana del grunge ha trovato rifugio nelle distorsioni e nella sincerità compositiva di album come “Song for The Deaf” e “Rated R“, alternati a momenti più moderati come “Era Vulgaris” e “Lullabies To Paralyze“. Attualmente l’esigenza della band di Josh Homme sembra quella di collocarsi in un panorama musicale più ampio e al passo con i tempi, complice la mancanza di riferimenti rock di rilievo. Si, i Queens Of The Stone Age sono rimasti forse gli ultimi testimoni di quello che fu del rock, nonostante oggi, un disco come “Villains” possa risultare fuori luogo e patinato.

Apparentemente l’outsider di un’intera produzione musicale, il settimo disco dei Queens Of The Stone Age nasce dalle radici più violente e brani come “Feet Don’t Fail Me” ne sono la debole testimonianza. Si passa da punti di esasperata cattiveria (più narrativa che musicale) a digressioni glam apparentemente lontane da ciò che potessimo immaginare. Una coerenza esiste: “Domesticated Animals” rappresenta la cattiveria compositiva adatta a trasportarci in un girone infernale, i continui falsetti riproposti da Homme in “Fortress” non sono così distanti dalle abitudini passate né dal sesto album in studio. Insomma, nell’era della cura, del racconto e dell’immagine i Queens of The Stone Age hanno pensato nel minimo particolare, dalle pseudo rappresentazioni da graphic novels all’immagine di sé stessi, alla firma di produzione ronsoniana. Non vuole essere una rassicurazione, piuttosto un incoraggiamento ad approcciarsi all’ascolto di “Villains” con il giusto atteggiamento nel caso brani come “The Way You Used To” avessero turbato la vostra sensibilità. Lo faranno anche brani come “Head Like A Haunted House“, ma fortunatamente non mancano le dosi massicce di distorsioni e quell’assetto da chitarra inconfondibile e che dal vivo potrebbe regalare emozioni.

Mark Ronson ha messo le mani sui Queens Of The Stone Age, ma lo ha saputo fare, e in qualche modo ha rispolverato il passato e lo ha reso capace di poter sopravvivere nel futuro, dove da tempo latitano i grandi del rock (salvo alcune rare eccezioni). La scelta di Homme e compagni sembra essere chiara: arrivare sui palchi di eccezione, candidarsi come nuovi riferimenti musicali per una generazione orfana di pilastri musicali e a digiuno di rock. L’obiettivo sembra quello di reclutare nuove leve sempre più esigenti ma anche debolmente influenzate dai comportamenti esterni, prive di personalità ma potenziale materia plasmabile. “Villains”, nomen omen, ma non abbastanza, ma sicuramente non ci sarà da annoiarci.

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