Recensire un album dei Pearl Jam è un’impresa ardua e non priva di peripezie e “Lightning Bolt” ne è la chiara esemplificazione: è uno di quegli album che va assorbito a pillole, una terapia i cui effetti – benefici o non – si apprezzano solo alla fine. Oppure lo scartiamo direttamente. Un’eternità per i fan, 4 anni dall’ultimo lavoro in studio per gli appassionati – per i cultori di musica un album che fa parlare di sé prima della pubblicazione ufficiale: già, per immergerci nella realtà di “Lightning Bolt” prendiamo qualche punto di riferimento, in particolare “Vitalogy” (1994) e “Backspacer” (2009). Ogni album rappresenta un tassello preciso, un punto di svolta che converge in “Lightning Bolt” (2013) e cerchiamo di capire il perché.
Abbandoniamo tutto l’iter che ha portato alla lavorazione dell’album – ne abbiamo parlato ampiamente nei mesi precedenti – e concentriamoci, invece, su un particolare: nel vedere che per ogni singolo è stato realizzato un artwork (a cura di Don Pendleton) abbiamo azzardato che “Lightning Bolt” fosse concepito come concept album. Non è così, ma analizzando velocemente le liriche scritte da Eddie Vedder riecheggia ancora una volta la sua dote di visionario – mantenendo la massima oggettività possibile. Qui ci troviamo in una fiction bella e fatta: da un lato per la lavorazione dell’album (basta andare un pò a ritroso seguendo l’iter della lavorazione) dall’altro lo spirito di un gruppo che è riuscito a sopravvivere per più di vent’anni nella scena musicale mondiale e, infine, i contenuti dei testi. Arriviamo al punto.
“Lightning Bolt” è stato registrato agli Henson Recording Studios di Los Angeles per la produzione di Brendan O’Brien: la band ci ha lavorato per quattro lunghi anni e una volta ultimato il lavoro in studio ad Eddie Vedder spetta il compito di cucire ad hoc i testi sulle musiche. Il loro processo creativo – per la maggiore – segue questo iter. “Dedicated to Uncle Neil” si legge nei ringraziamenti, palese riferimento a Neil Young.
Getaway è il brano d’apertura composto da Eddie Vedder, un rock duro con il giro di chitarre in evidenza, una peculiarità della band che è solita inserire nell’incipit della tracklist un brano duro che introduce all’atmosfera dell’album: di sicuro più duro di “Gonna see My Friend” tratto da “Backspacer” ma il testo è un urlo di rabbia: “It’s ok/Sometimes you find yourself/Having to put all your faith/In no faith/Mine is mine, and yours won’t take its place/Now make your getaway”.
“Mind Your Manners” è il pezzo punk dell’album composto da Mike McCready e Eddie Vedder, già in rotazione musicale, riprende l’atmosfera dell’album “Vitalogy” con il brano “Spin the Black Circle”; in evidenza qui oltre al solo di chitarra c’è la batteria di Matt Cameron che entra dritta allo stomaco ma il titolo può trarre in inganno: “They’re taking young innocents/And then they throw em on a burning pile/And all along they’re saying/Mind your manners!”
“My Father’s Son” contribuisce a marcare il ritmo nell’incipit dell’album, Vedder racconta di un ragazzo che vive un rapporto tribolato con il padre cercando di combattere i demoni che lo hanno portato al fallimento: “From the moment I fail/I call on DNA/Why such betrayal?/Got me tooth and nail”; a questo brano fa eco “Infallible” una ballata di oltre 5 minuti molto ironica “Keep on locking your doors/Keep on building your floors/Keep on just as before” introduttiva la seconda parte dell’album che perde leggermente la compostezza che contraddistingue i primi brani.
“Sirens” è stata scritta da Matt Cameron e Mike McCready, in evidenza la sua acustica a 12 corde ma l’atmosfera del brano è rafforzata dalla voce unica e penetrante di Eddie Vedder, un testo che non è azzardato considerare poesia “Have you take your hand, and feel your breath/For fear this someday will be over”.
“Lightning Bolt” richiama un pò l’atmosfera di “The Fixer” brano tratto da “Backspacer” e rappresenta la prima title track nella storia del gruppo. Molto rock, un fulmine che introduce all’ascolto della seconda parte dell’album.
“Pendulum” è un brano molto scarno scritto a sei mani da Eddie Vedder, Jeff Ament e Stone Gossard che non richiama particolare attenzione ma – in prospettiva – se inserita in scaletta nei live, è capace di creare un’atmosfera sublime; fa sponda con “Let the Records Play” un blues-rock davvero piacevole in linea con le precedenti produzioni. Curioso ascoltare, invece, “Sleeping By Myself” già presente in “Ukulele Song” album solista di Vedder del 2011, che presenta, sì, l’Ukulele verso la fine del brano ma al testo crudo “Forever be sad and lonely/Forever never be the same/I close my eyes, wait for a sign/Am I just waiting in vain?” si contrappone un folk-rock davvero piacevole.
“Swallowed Whole” mette in risalto una chitarra elettro-acustica, l’orecchio si concentra sul giro e troviamo ancora una volta il rapporto empatico tra Vedder e la natura: “Hear the planet humming/What is clear far from the noise/Get swallowed whole”.
“Yellow Moon” non richiama particolare attenzione, un pezzo di riempimento, che anticipa il brano in chiusura “Future Days” una canzone d’amore, una poesia cantata con l’ausilio di chitarra e violino “I believe/And I believe cause I can see/Our future days/Days of you and me”.
Seppur con qualche forzatura (nessun paragone solo punti di riferimento), vista l’intera operazione di imaging creata attorno alla pubblicazione di “Lightning Bolt”, il decimo lavoro in studio dei Pearl Jam non tradisce le aspettative e cavalca ancora l’onda del filone rock. Quel filone che oggi segue la scia della musica elettronica, mantenuto comunque vivo da una band che è riuscita a sopravvivere alla dura legge del più forte: Neil Young ci dice che il “rock’n’roll non morirà mai” e lo accettiamo ascoltando “Lightning Bolt”. Ma siamo lontani dalle sperimentazioni cui ci hanno abituati nel tempo.