Ogun Ferraille è un gruppo composto da Mauro Nigro, Marco Filice e Stefano Greco nato nel 2006 non solo per la passione per la musica, bensì per la necessità di comunicare. All’attivo contano un Ep pubblicato nel 2007 “My Own Drama”, un disco pubblicato nel 2009 (precisamente il mese di Novembre) “Finalmente ti ho ucciso, Batman!“ e l’ultimo “My Stalker Doesn’t Love Me” pubblicato lo scorso 25 Gennaio 2013. Mentre per l’Ep si affidano alla proprie capacità ed al proprio ingegno (l’esordio è interamente autoprodotto), per i due album successivi si affidano all’etichetta Morone Records ricavandosi un posto di tutto rispetto tra le righe della critica ed il cuore dei propri fan.
Elogio indiretto alla terra calabrese che ha dato loro i natali, i tre membri (tre scritto in lettere) si affidano ai 3 strumenti (3 scritto in numeri) più comunemente utilizzati, ma pur sempre efficaci: Mauro Nigro (chitarra e voce), Marco Filice (batteria), Stefano Greco (basso e voce) si prendono oneri e responsabilità di far suonare a propria immagine e somiglianza le note di corde e pelli per un mix che, si, risente ancora di qualche influenza d’oltreoceano, ma ben si distacca da quei sterili paragoni che uccidono la creatività. Del resto la musica italiana (come categoria) è un genere dalle mille influenze e contaminazioni. Ben venga se costellata di autenticità, non anchilosata.
I tre preferiscono la formula del live tale da guadagnarsi una sempre più ampia fetta di pubblico proprio per i concerti, un mix di energia e rabbia sparata dai watt di testate ed amplificatori, senza dimenticare la casa rullante e cassa: un lavoro immane che ne delinea la struttura dei brani, caratterizzati per lo più da un suono ruvido, perfettamente incastrato tra il post-grunge degli anni ’90 e l’industrial rock con spruzzi psichedelici che non gustano per nulla.
Le liriche sono completamente concepite in inglese, consentendo una libera interpretazione: che vogliano espatriare o meno i versi sono molto brevi, concisi, con i ritornelli ripetuti ad hoc di facile ascolto, giri di basso che creano un vuoto riempito (quest’ultimo) dai riff di chitarra sparati senza mezze note: rabbia, delusione, frustrazione si fondono con la musica che (infondo) rappresenta la gioia di vivere. I contenuti dell’album sono anticipati dalla copertina, come la buona tradizione centenaria vuole: non è un caso se l’artwork presenta un disegno che molto richiama i fumetti stile MARVEL: un uomo uccide il suo stalker in una cabina telefonica, il cui discriminante è lo sfondo dark, un crimine di cui la società moderna è fautrice e non immune.
“My Stalker Doesn’t Love Me” si apre con un riff di chitarra in stile grunge di cui è costellato il brano “Barney’s Version”: fermo restando che l’intero lavoro porta la firma dei tre all’unisono, accantonando la formula one-man-work, la lirica mira ad esorcizzare le contraddizioni che i fantasmi della realtà possono fomentare in ognuno. Una formula ben riuscita.
“Candiru” è un sali-scendi strumentale concepito per il testo: senza pause né mezze misure il testo è un chiaro messaggio freudiano il cui oggetto è la figura paterna, la disillusione, la contraddizione. L’intro è un riff demoniaco che perfettamente si fonde con il finale psichedelico.
“(Freeing you From) Haviness of Choice” è l’esorcizzazione del populismo che dilaga i nostri tempi, il tema migliore da cucire su un ritmo veloce e succulento. Al primo ascolto la lirica risulta molto autoreferenziale, un gioco di parole che ben rende l’idea.
“Interrupted Speech” e “Act of Sorrow” sono gli unici brani della tracklist che presentano sonorità prevalentemente pop, una sorta di pausa che si incastra proprio nel bel mezzo di chitarre e bassi che arrivano diritti allo stomaco (caratteristiche peculiari dei restanti brani). Una sorta di resa, spalle al muro, esorcizzata però dal potente riff di chitarra ed il giro di basso presente sul finale di “Act of Sorrow”.
“Peter” è un monologo in stile Bukowski, un’atmosfera surreale che un ragazzo qualunque può creare guardandosi allo specchio: domande seguite da risposte (con tanto di urlo liberatorio presente nel ritornello) un mix di disperazione e consapevolezza. Non è certo un caso che alle domande accompagnate dal basso si contrappongono le risposte della chitarra.
“Sleeping with my Ghosts” è la ballata che chiude il disco, l’unica nota autoreferenziale davvero marcata: la consapevolezza delle proprie debolezze si scontra con l’illusione.
Definirlo concept album risulta riduttivo per ben definire il lavoro degli Ogun Ferraille: considerato che ascoltiamo il terzo lavoro, possiamo dire che sono sulla “cattiva strada” per la ricerca di uno stile proprio. Un diario in musica che non stanca anche se ascoltato più volte ripetutamente: da una parte le influenze dall’altra l’originalità; questa la caratteristica distintiva, ecco!
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