Quanto è difficile raccontare il dolore di una perdita così grave come quella di un figlio, soprattutto se giunta per un incidente? Tanto, talmente tanto che in alcuni casi quel dolore uccide o fa rinchiudere nei propri mondi, sperando che nulla sia successo. Quando poi sei un artista e questa situazione capita a te, o chiudi tutto in un cassetto e lasci che il tempo faccia la sua parte oppure utilizzi la tua musica come terapia catartica, come valvola di sfogo di un malessere che altrimenti non troverebbe sfogo. E questa è la strada che ha scelto il cantautore australiano Nick Cave per affrontare la morte del suo figlio quindicenne Arthur morto cadendo da una scogliera.
Cave stava lavorando al seguito di “Push the sky away” da tre anni e aveva trascorso due anni a Brighton, La Frette-sur-Seine e Londra quando è successa la tragedia: messo da parte il dolore del lutto Nick ha ripreso in mano tutti i testi del disco e li ha adattati al suo sentire del momento, trasformando un disco in un diario del dolore, una sorta di testamento della perdita, un modo per affrontare la morte senza impazzire.
Oltre alla sua funzione terapeutica, “Skeleton Tree” ha anche un grandissimo pregio, ovvero quello di presentarci un Nick Cave assolutamente inedito sperimentatore musicale. La produzione di questo disco ha visto un approccio più minimale e grezzo, incorporando anche elementi di alternative rock, elettronica e ambient nelle canzoni, favorendo l’utilizzo di sintetizzatori, drum machines e loops. Molte canzoni del disco utilizzano anche tecniche di musica d’avanguardia, come l’uso di elementi musicali dissonanti e la scelta di strutture musicali azzardate.
E uno dei pregi del disco è proprio questo suo non essere abitudinario e prevedebile: le canzoni si sono adattate nel tempo ai testi che Cave ha spesso improvvisato abbandonando il cantato e avvicinandosi alla narrazione, come un moderno crooner, ricordando moltissimo in questa scelta gli ultimi anni di un mostro sacro come Johnny Cash. La tragedia ha come sbloccato (e bloccato) qualcosa in Cave, portandolo verso una forma più primitiva di narrazione abbandonando i suoi testi elaborati e affabulanti e indossando i panni dell’elegia e della profezia.
Solo se sommiamo tutti questi ingredienti possiamo capire fino in fondo che tipo di album sia “Skeleton Tree”: sono solo otto canzoni ma ognuna di esse pesa come un macigno proprio per come è nata, è stata registrata ed è stata cantata. La musica oltre ad essere spoglia mette a nudo il dolore non solo di un uomo ma di tutta una famiglia colpita da un dolore immenso a cui ha cercato di ovviare in vari modi. Già dall’apertura con il brano “Jesus Alone” si ha la sensazione di entrare in una camera mortuaria e si osserva il dovuto silenzio per non disturbare: è curioso notare che questa canzone sia stata scritta prima dell’incidente e che quindi sembri quasi profetica.
“Rings of Saturn” è forse una delle mie canzoni preferite del disco, con quell’aria di catastrofe imminente senza possibilità di salvezza (“Up and out of the bed and down the hall where she stops for moment and turns and says/”Are you still here?”/And then reaches high and dangles herself like a child’s dream from the rings of Saturn/” “Scesa dal letto e giù per le scale si ferma un momento, si gira e dice/ “Sei ancora lì?”/ e dopo si alza e si mette a penzolare come il sogno di un bambino dagli anelli di Saturno”). E’ difficile trovare una canzone che non colpisca in questo disco, e una dopo l’altra si snocciolano come le perle di un rosario la delicatissima “Girl in Amber“, l’affascinante “Magneto” e la distopica “Anthrocene” fino a giungere al climx del disco, la struggente “I Need You” le cui parole sono come pugnalate (“A long black car is waiting ‘round/I will miss you when you’re gone/I’ll miss you when you’re gone away forever/Cause nothing really matters/I thought I knew better, so much better/And I need you” “Una macchina nera sta aspettando/Mi mancherai quando sarai andato via/ Ti mancherò quando sarai andato via per sempre/ Perchè niente importa davvero/Pensavo di saperlo meglio, molto meglio/ e ora ho bisogno di te”). Il disco di Cave ospita anche il tenore Else Torp che fa da contraltare per la apocalittica ed eterea “Distant Sky” prima di chiudere con la title-track, “Skeleton Tree“, forse la canzone più carica di speranza di tutto il disco, che arriva nel preciso momento in cui il dolore lascia il posto alla speranza, alla quotidianità e alla vita di tutti i giorni con la sua frase finale “And it’s alright now“, va tutto bene ora.
Più che un disco questo “Skeleton Tree” è una confessione atea, una ammissione dell’unica colpa che ci può essere imputata, ovvero quella di essere semplicemente esseri umani e come tali schiavi del dolore, soprattutto quando costretti a subire una perdita come la morte del proprio figlio. Cave è sempre stato un artista che ha teso al melodrammatico e al lato più oscuro della vita ma in questo disco, complice la tragedia, si spoglia degli orpelli musicali e letterari e va dritto al cuore dell’ascoltatore, portando in scena nient’altro che il suo dolore, distillato nota dopo nota. E’ un album cupo, oscuro, senza nessuna speranza, una semplice cronaca del malessere, dove viene fuori la natura fragile dell’uomo e la voce di Cave a tratti pare rotta dalle lacrime e dove i Bad Seeds si sono messi umilmente al suo servizio per tributare l’ultimo elogio funebre a Arthur Cave. Questo è il disco per cui Cave verrà sempre ricordato.