Questa recensione sarà la recensione dei “parzialmente”. E più avanti capirete perchè.
Quando si parla di grunge, molti pensano immediatamente ai Nirvana di Kurt Cobain. Pensiero parzialmente corretto. Parzialmente perché, se si considerano i Mudhoney, i padri del genere grunge sono molto probabilmente loro.
Nati anche loro a Seattle nel 1988 dalle ceneri dei Green River (gruppo di cui, oltre a Mark Arm e Steve Turner, facevano parte Jeff Ament e Stone Gossard, che in seguito formeranno i Pearl Jam), i Mudhoney sono stati il primo gruppo grunge statunitense messo sotto scrittura con successo dalla famosa etichetta indipendente Sub Pop Records di Seattle. Il gruppo grazie al proprio lavoro ha contribuito maggiormente alla diffusione del suono sporco e distorto tipico del grunge, permettendo all’intero movimento di venire allo scoperto e di passare da fenomeno di nicchia a solida realtà mainstream, creando anche il terreno per gruppi come Pearl Jam, Nirvana e Soundgarden. Possiamo affermare senza riserve che i Mudhoney sono la band di ispirazione di numerose formazioni indie e alternative rock così come molti musicisti, tra cui Kurt Cobain che ha avuto modo, in più di un’occasione, di citarli come punto di riferimento musicale.
La formazione americana, composta dai fondatori Mark Arm (voce e chitarra), Steve Turner (chitarra), Dan Peters (batteria) e da Guy Maddison (basso) ha pubblicato il suo nono disco in studio, “Vanishing point“, a distanza di ben 5 anni dal loro precedente lavoro “The lucky ones”. Ma per questi quattro ragazzotti non più tanto ragazzotti il tempo sembra essersi parzialmente fermato. Parzialmente perchè il disco sembra una still capture messa lì quindici o dieci anni fa, una foto invecchiata dal tempo e ingiallita, proprio come la copertina del disco che vedete qui sotto.
Parzialmente, ripeto. Perché, anche se il disco mantiene un suo stile particolare che dimostra come i Mudhoney abbiano ancora tanto da dire riguardo al grunge e che sono in grado di dirlo in maniera più che eccellente, lo stile del disco non si mantiene SOLO sul grunge, ma incorpora anche derivazioni rock che portano da altre parti, come in “What to do with the neutral“, “In the rubber tomb” e “Sing this song of joy“.
Questo disco dimostra che quelli che dicono che il grunge ormai come stile musicale è morto e sepolto hanno torto marcio. Il grunge non è morto. O almeno, è parzialmente morto.
Parzialmente perchè, in certi punti del disco, ad essere sinceri, il grunge sembra maledettamente uno zombie che brancola ancora nei generi musicali cercando di mangiare gli altri stili e farli suoi, portarli dalla sua parte, corromperli e farli diventare parte di esso.
I Mudhoney sono dei duri e puri dal punto di vista musicale e non barattano la loro musica e su questo non c’è nulla da dire, anzi onore alla coerenza soprattutto dopo così tanti anni di onorata carriera musicale. Il problema sorge alla distanza: il disco stanca alla lunga e stancherà soprattutto chi non ama il genere e chi non è nato e cresciuto con canzoni di questo tipo. 34 minuti che lasciano una sensazione di incompiutezza musicale spiacevole. Un disco, insomma, parzialmente buono. Parzialmente.