Metallica: “Hardwired… to self-destruct”. La recensione

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Era uno dei dischi più attesi di tutto il 2016 ed è uscito solo il 18 novembre: parliamo di “Hardwired… to Self-Destruct“, decimo album in studio dei Metallica. L’attesa è stata ripagata da un doppio album per la Blackened Recordings (prodotto da Greg Fidelman) e questo è il primo disco che i Metallica producono dopo “Death Magnetic” del 2008 e anche il primo che non vede canzoni scritte dal frontman Kirk Hammett in quanto durante la registrazione ha perso il suo telefono all’aeroporto di Copenaghen con dentro oltre 250 riff di chitarra.

I nostri quattro eroi del metal (James Hetfield alla voce e chitarra ritmica, Kirk Hammett alla chitarra, Robert Trujillo al basso e Lars Ulrich alla batteria) parlavano di questo disco già nel 2011 quando Trujillo in alcune intervista diceva che la band stava registrando del nuovo materiale. Nel 2014 durante il tour “Metallica By Request” la band cominciò a suonare una nuova canzone intitolata “Lords of Summer” e nell’ottobre del 2015 la band svelò il suo nuovo sito ufficiale con un’introduzione di Ulrich contenente dei video che mostravano la band in studio che lavorava su nuovo materiale.

Hardwired… to Self-Destruct” si presenta come un doppio CD e il primo disco si apre con il primo singolo, “Hardwired“, canzone che parla di droga e che riporta subito al passato con un ritmo forsennato, un drumming serrato e delle chitarre che ricordano i primi tempi dei Metallica. La seconda canzone è “Atlas, Rise!“, scelta come terzo singolo lanciato ad Halloween e che riporta subito ai tempi (e lunghezze) a cui i quattro di Los Angeles ci hanno abituato da tempo ma in questo caso la canzone è compatta, precisa, senza sbavature “strane” o inutili voli pindarici. “Now That We’re Dead” si apre con un giro di chitarra e basso che ricorda da lontano “Enter Sandman” e prosegue sulla strada tracciata dalla canzone precedente mentre “Moth into Flame“, il secondo singolo, si rivela uno dei pezzi più apprezzabili di questo primo disco. Con “Dream No More” i Metallica mostrano la loro passione mai sopita per Cthulhu, divinità tratta dai lavori dello scrittore del terrore H.P. Lovecraft mentre il primo disco si conclude con “Halo on Fire“, la canzona più lunga di tutto l’album che ha al suo interno almeno un paio di cambi di melodia con un piacevolissimo finale hard rock.

metallica hard wired to self destruct
Metallica – Hardwired… to self-destruct – Artwork

Il secondo disco si apre con l’incedere marziale di “Confusion” che si dilata e prende spazio per poi farsi prendere la mano dalla batteria e pestare a più non posso sul ritmo. “ManUNkind” vede l’inizio firmato dal bassista Robert Trujillo per una canzone che parla senza peli sulla lingua di guerra e di come l’uomo tenda a distruggere se stesso senza mai imparare la lezione della storia mentre “Here Comes Revenge” parla del demonio e di come l’odio e la vendetta abbiano sempre influenzato la storia dell’uomo (“Man has made me oh so strong/Blurring lines of right and wrong/Far too late for frail amends/Now it’s come to sweet revenge”). “Am I Savage?” abbassa notevolmente il ritmo del disco con i suoi arpeggi iniziali e porta automaticamente a scuotere la testa mentre “Murder One” è un tributo al frontman dei Motörhead Lemmy morto nel dicembre del 2015 e la canzone prende il nome dall’amplificatore preferito dal bassista ed è un brano bellissimo dove i Metallica abbassano i bpm per suonare come la band dell’amico scomparso. L’intero doppio disco si conclude con la velocissima “Spit Out the Bone” che sembra chiudere con un tratto il cerchio ideale aperto da “Hardwired”.

Per parlare di questo disco partiamo dai numeri: “Hardwired… to Self-Destruct” ha debuttato come numero uno nella Billboard 200 vendendo qualcosa come 291.000 e totalizzando 9.3 milioni di streams solo nella prima settimana. Il disco è stato al primo posto nella classifica di 57 nazioni ed è entrato nella Top Three in 75 nazioni e nella top Five in 105 stati. Già questi dati possono dare il senso di che tipo di attesa si portavano dietro i Metallica e devo dire che dal mio punto di vista sono state ripagate: 77 minuti di metal suonato a questo livello sono duri da affrontare per tutti ma tra i brani troviamo delle variazioni che non fanno annoiare l’ascoltatore e questo è di gran lunga uno dei migliori album dei Metallica da tanto tempo. Abbandonato il mezzo disastro di “Death magnetic” Hammett e soci sono tornati su un terreno che hanno loro stessi contribuito a creare e si sono destreggiati più che bene (anche se il secondo disco non è all’altezza del primo, secondo me) e il fatto di sentire echi di “…And Justice for All” fa solo bene al cuore. La voce di Hetfield sembra rinvigorita (ma dall’altro lato Ulrich sembra risparmiarsi) e il disco sembra sia stato fatto per l’amore della musica piuttosto che per ragioni di marketing (ne è un segno l’assenza di ballads e di pezzi strumentali). Forse se il disco fosse stato meno lungo sarebbe stato anche più efficace ma questo è un giudizio personale.

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