Linkin Park: “One more light”. La recensione

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Ci sono degli articoli o dei pezzi che eviti come la peste di pubblicare o di scrivere per l’ondata emozionale che susciteranno in te nel momento stesso in cui poggerai le mani sulla tastiera. E questo rientra di diritto nella mia personale Top Ten del disagio (o dei #feels come dicono oggi tutti sui social networks).

Lo ammetto, sono stato uno dei fans della prima ora dei Linkin Park di “Meteora” e “Hybrid theory“, ho consumato quei due cd, urlando al mondo insieme a Chester e Mike la mia insoddisfazione, la mia rabbia, il mio disagio giovanile. Sono cresciuto con loro e con canzoni come “From the inside”, “Points of authority”, “One step closer” e “In the end”, ho urlato i loro testi durante gli eventi in cui si suonava la musica rock, ho sudato e sgomitato ai loro concerti e ho amato da morire la voce di Chester. E la notizia del suo suicidio, così come quella di Chris Cornell, mi hanno colto semplicemente a freddo, incapace di reagire, sgomento. E per questo motivo ho accantonato per un pochino la recensione dell’ultimo disco dei Linkin Park, vista anche l’ondata di commenti negativi che sono scaturiti. Ma ora, dopo il suicidio di Chester, mi sembra giusto invece farla, questa recensione, per lo meno come tributo ad una persona che ha così influenzato la mia giovinezza.

Come al solito, partiamo dai dai tecnici: “One More Light” è il settimo album in studio del gruppo musicale statunitense Linkin Park, pubblicato il 19 maggio 2017 dalla Warner Bros. Records. Il disco ha visto la partecipazione vocale della cantante R&B Kiiara nel brano “Heavy“, pubblicato come primo singolo del nuovo album e presente anche nel relativo videoclip diretto da Tim Mattia. Tra il 16 e il 18 maggio il fan club ufficiale del gruppo ha organizzato un preascolto dell’album in alcune nazioni da loro selezionate. L’album è stato inoltre promosso da un tour europeo svoltosi tra maggio e luglio 2017 e avrebbe dovuto proseguire anche negli Stati Uniti d’America tra il 27 luglio e il 22 ottobre, con Machine Gun Kelly in qualità di artista ospite.

Cover
Linkin Park – “One more light” – Cover

Parliamo ora della reazione generale a questo disco: “One More Light” è stato accolto da recensioni generalmente negative da parte della critica specializzata. Molti addetti ai lavori hanno parlato di “mossa commerciale debole e commovente (forse per competere con Twenty One Pilots“, alcuni hanno lamentato la totale assenza di “quella carica viscerale che precedentemente ha definito gran parte del loro catalogo“, altri addirittura hanno affermato che “con One More Light i Linkin Park dicono addio al rock“. In tutto questo dissing non sono mancate le recensioni positive, che hanno lodato la nuova direzione presa dei Linkin Park, comparandola ai lavori dei Coldplay e dei Owl City. Tutte queste reazioni hanno generato la risposta piccata da parte di Chester Bennington, che ha reagito in maniera diretta: “Ci è stato chiesto che cosa pensiamo delle persone che dicono che ci siamo venduti al mondo della musica. Non me ne frega niente di loro. Se vi piace la musica, magnifico. Se non vi piace, è la vostra opinione ed è fantastico. Se dite che stiamo facendo quello che stiamo facendo per motivi commerciali o monetari, cercando di fare successo con qualche formula strana, potete anche prendervi a pugni in faccia da soli.” Successivamente, dopo uno scambio con Corey Taylor degli Slipknot, aveva affermato di avere bisogno di tempo per ricalibrare la sua prospettiva. Tempo che purtroppo non c’è stato.

Dopo aver parlato degli altri, ora tocca a me. Sarò sincero e schietto, come disco “One more light” non è neanche male, e capisco che qualcuno in giro abbia parlato di Linkin Pop piuttosto che di Linkin Park.  La confidenza mostrata dal gruppo nello sterzare completamente percorso musicale dopo aver pubblicato un disco come “The hunting party” mostra il coraggio di Mike Shinoda e soci e di come la band abbia voluto testimoniare il suo percorso di crescita, che piaccia o meno ai fans della prima ora. Ovviamente non è un lavoro perfetto, e lo si sente in canzoni come “Talking to myself“, ma per il resto è un disco che scorre bene e che in vari episodi si alza anche dalla media e colpisce, come in “Sharp edges” che ricorda i Mumford & Sons e “Sorry for now” che vede Mike Shinoda cantare e non rappare dedicando la canzone al figlio. Ma ora, a distanza di mesi, sono i testi che fanno più male. Leggere le parole di “Heavy” (“perchè deve essere tutto così pesante?“), di “Halfway right” (“Dimmi ragazzo, stai andando troppo veloce. Hai bruciato in modo troppo radioso, lo sai che non durerai”) e di “Sharp edges” (“Tutti cadiamo, tutti sopravviviamo in qualche modo, e impariamo che quello che non ci uccide ci rende più forti“) fa male. Sono i testi la cosa più bella di questo disco, non le canzoni. Sono le parole che Chester ci ha sempre urlato addosso per anni e che ci hanno fatto avvicinare così tanto a lui, ma questa volta è il contenitore che cambia, e questo stile così catchy a molti non è piaciuto. L’unica cosa che so è che, qualunque fede religiosa abbiate, in questo momento Chester si trova in un luogo in cui non c’è più la sofferenza che ha patito fin dall’infanzia. E mi piace pensare a questo disco come a un regalo d’addio, un lascito per noi, una sorta di Natale al contrario. E quindi buon viaggio Chester.

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