Le luci della centrale elettrica: Per ora noi la chiameremo felicità. La recensione

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Vasco Brondi

Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero?” E’ quello che si chiede ripetutamente Vasco Brondi, ferrarese classe 1984. Voce, chitarra, anima del progetto Le luci della centrale elettrica. Tre album all’attivo, un libro. Con il ritorno insistente a quei temi, alle disavventure domestiche e ai viaggi sulla luna in Fiat Uno.  Tutto è legato apparentemente a dialoghi che si stravolgono e si riprendono, sempre con lei, amore ipotetico mai chiamato per nome. I testi di Brondi trasudano quell’agonia disperata che ricalca un po’ l’Italia degli ultimi mesi. Perchè in quelle apparenti “lettere d’amore scritte a computer”, c’è molto di più di un banale sentimentalismo. I dialoghi cupi lambiscono i temi più stridenti della società odierna: le morti bianche, le rivoluzioni con l’eye-liner, i licenziamenti dei metalmeccanici, la Coop che in realtà non è Coop perchè “i CCCP non ci sono più”. Tutto questo mescolato alla banalità assurda delle nuove generazioni, nei loro misantropici interrogativi conditi da occasionali lampi di lucidità. Questi sono forse i motivi più significativi per cui Vasco Brondi sta passando da un pubblico di nicchia ad una più vasta gamma di ascoltatori, perlopiù giovani, che ritrovano in quei flussi di coscienza Joyciani – apparentemente contorte seghe mentali del cantautore stesso –  una generazione-strumento, descritta meravigliosamente da quella voce grattata, di certo non sensazionale ma pur sempre dura, calzante ad hoc lo status quo che si vuole raccontare.

Le luci della centrale elettrica - Per ora noi la chiameremo felicità - artwork
Le luci della centrale elettrica sono una realtà giovane, con un occhio volto al passato e due verso il futuro. C’è chi ha accostato Brondi a diversi mostri sacri, da de Andrè a Rino Gaetano. Questo perchè oggi non si può essere autonomamente se stessi senza accostamenti azzardati e assurdi. Vasco Brondi omaggia, lo fa nei testi (inNei garage a Milano nord riprende una strofa da Il cielo è sempre più blu“), nei live, in cui canta pezzi di De Andrè come La domenica delle salme (con risultati tuttalpiù perfezionabili). Ricordiamo anche altre cover di Faber, da Verranno a chiederti del nostro amore a Parlando del naufragio della London Valour“. Quest’ultima, che prevede unicamente la recitazione di un testo superbo con un sottofondo musicale vellutato, è interpretata da Brondi con una spigliatezza e una sincerità uniche. Probabilmente lo stesso De Andrè avrebbe tessuto lodi al ferrarese: la sua voce si dimostra incertamente sicura, profonda, enfatica al punto giusto quando richiesto. Allo stesso tempo però, Le luci della centrale elettrica, mantengono la propria identità integra. Non è giusto quindi scomodare i grandi per sminuire i piccoli: i tempi sono cambiati, così come i mezzi, le situazioni, i contesti sociali. Vasco Brondi vive i suoi 26 anni nell’ingenua incoscenza di chi si ritrova in un paese che forse sta morendo sul piano intellettuale. Oppure che, attraverso le nuove generazioni, cerca di riscattarsi per spezzare la catene imposte dai “vecchi”. Non ci resta che annichilirci allora? E lasciarci incastrare dai testi spietati e taglienti che Le luci della centrale elettrica regalano agli ascoltatori? Oppure, conviene provarci. Seguire anche un po’ ingenuamente il proprio istinto rabbioso, partendo dal presupposto “che ci fregano sempre”. E andare nella propria angoscia, avanti. Contro un ipotetico Golia. E affidiamoci un po’ allora alle parole di Leo Ferrè (riprese anche da Brondi per il titolo dell’ultimo album): “La disperazione è una forma superiore di critica, per ora noi la chiameremo felicità “.

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