Lassociazione: “La parola ha un significato immenso”, l’intervista

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MelodicaMente ha avuto il piacere di intervistare Lassociazione, supergruppo, ben nove componenti infatti formano la band, considerato un vero e proprio fenomeno di terra reggiana.A Strapiombo“, il secondo disco pubblicato nel 2012 segue “Aforismi da castagneto“, album di debutto pubblicato in maniera del tutto indipendente. Intervistando la formazione abbiamo scoperto molti concetti interessanti, partendo proprio dall’origine del nome, senza l’apostrofo che crea un senso di divisione, passando per quest’ultimo lavoro, “A Strapiombo”, registrato in una antica pieve tra i boschi.

Ecco di seguito la nostra chiacchierata con Lassociazione:

La vostra band ha un nome sicuramente particolare: Lassociazione, senza apostrofo, quasi per dare un senso di maggiore continuità. Da cosa deriva questa scelta e per quale motivo avete deciso di utilizzare questo nome?

Giorgio: Lassociazione vuol dire un gruppo coeso, deciso nelle strade da intraprendere e unito in una terra difficile da vivere. Un apostrofo declama una piccola divisione che non c’è, quindi abbiamo deciso di toglierla.

Nove componenti per un gruppo musicale sono sicuramente un numero molto ampio, seppur ognuno di voi ha un ruolo ben preciso all’interno della formazione. Da cosa è nato il bisogno di costruire una band con ben nove musicisti?

Marco: beh sì, diciamo che Lassociazione è una piccola orchestra; la scelta dei musicisti è venuta naturale quando abbiamo inciso il primo disco “Aforismi da castagneto”, dove c’era già intenzione di utilizzare vari strumenti anche inusuali, quali il banjo o la tromba, per una band folk-rock. Dopo i concerti promozionali del disco abbiamo sentito l’esigenza di aggiungere alla formazione le tastiere per cercare di rendere al meglio anche dal vivo le sonorità che cerchiamo.

Gigi: in un periodo di crisi allargata come è quello che viviamo, e in controtendenza con l’abitudine a produrre solisti più che gruppi, siamo effettivamente una mosca bianca, ma Lassociazione non segue le regole “del settore” e in qualche modo non si fa mancare niente di tutto ciò che ritiene necessario. Effettivamente siamo un bel numero, ma ogni tassello serve a questo puzzle sonoro. Siamo una famiglia che si completa con chi lavora con noi anche giù dal palco, dal fonico “Didi” Bagnoli, che è lo stesso dei nostri dischi, a quelli che si occupano degli altri aspetti del nostro suonare in giro.

Passiamo al vostro secondo disco “A-Strapiombo”. Dal comunicato di presentazione del lavoro si legge “Cantiamo in italiano, cantiamo in dialetto e in chissà quante altre lingue potremo cantare perché la parola è un suono”, potreste spiegare meglio questo concetto?

Giorgio: Lassociazione dà alla parola un significato immenso, non è forse il dialetto tosco-emiliano un linguaggio mutato nel tempo passando dai liguri, ai romani e tenendo ben preciso e di base il latino. Così la lingua italiana  nobile per millenni potrebbe tornare ad avere la sua importanza nel mondo musicale solo sfiorata  negli ultimi decenni dal mondo cantautoriale. La lingua è un suono, basta chiudere gli occhi e farsi guidare.

Marco: non ci precludiamo nulla. La parola è effettivamente un suono, l’obiettivo è quello di integrarlo perfettamente con la linea melodica dei brani; qualsiasi lingua, quindi parola, se scelta a dovere acquista un significato che va al di là del suo significato stesso.

Gigi: parola e canto come strumenti, non differenti da una tromba o una chitarra. In questo senso ci piace intenderla e quindi non porle limiti ne confini di espressione.

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La copertina di “A-Strapiombo” è davvero molto evocativa. Quali sono state le motivazioni che vi hanno portato alla scelta di essa?

Gigi: come forse saprai, mi era già successo di occuparmi delle cover dei dischi nei quali suono, le copertine dei primi 4 album di Ligabue sono una mia creazione, in effetti l’arte visiva è l’altro grande amore della mia vita insieme alla batteria. La differenza con qualsiasi altro grafico o creativo è che vivo la nascita e lo sviluppo di un album fin dall’inizio, spesso l’idea grafica cresce e si materializza proprio mentre sto registrando l’album. Non c’è differenza, l’una è l’altra cosa, sono un tutt’uno. Quando con Giorgio e Marco si è deciso il titolo, la prima immagine che mi si è materializzata nella mente è quella che vedi ora, ma a questo risultato si arriva grazie al fatto che vivi dal di dentro tutto quello che sta accadendo.

Giorgio: A me sembra che la situazione del vecchio continente sia totalmente a strapiombo anche se noi in montagna siamo sempre stati abituati ad una vita difficile e sofferta. Bella e dura la gente d’appennino. Una roccia a strapiombo ha più vita che una roccia normale su un dirupo, una quercia appesa ad una parete ti stupisce ma dichiara al mondo il suo respiro ben fatto.

Facciamo un passo indietro e parliamo di “Aforismi da castagneto”, il vostro disco d’esordio in relazione con “A-Strapiombo”: quali sono le differenze principali fra i due lavori?

Marco: “Aforismi da castagneto” è fondamentalmente un concept-album. Parla di un mondo che è stato, di gente, di situazioni proprie del nostro territorio. E’ completamente cantato in dialetto, con vari ospiti che si alternano a interpretare i vari personaggi che abitano le canzoni. E’ stato un lavoro studiato per ricordare le nostre radici. Dopo circa un anno di concerti si è concretizzata l’idea di rientrare in studio con questa band oramai rodata. Abbiamo deciso di registrare tutto d’un fiato “A strapiombo” in una dimensione “live”. La differenza sostanziale è che questo disco parla di noi, da cosa diciamo a come lo suoniamo. A strapiombo, insomma.

“A-Strapiombo” è un continuo fluire fra dialetto e italiano. A cosa è dovuta la scelta di utilizzare in modo massiccio entrambe le lingue? Il bisogno di utilizzare il dialetto da cosa nasce?

Giorgio: Scrivere in dialetto e cantarlo assomiglia molto all’inglese, parole tronche con il finale in consonante e quindi va a finire che a cantarle diventa più veloce e comodo. Quando capiremo tutti quanti che il dialetto è un arricchimento dell’anima e non una barriera culturale io sarò felice. In “ Vorrei cantare la vita” abbiamo messo il dialetto nel ritornello e l’italiano nelle strofe, cosa difficile da affrontare nello sviluppo della canzone che deve sempre essere qualitativamente alta anche nella parte musicale. Vogliamo o no considerare il dialetto una lingua?

Ascoltando “A-Strapiombo” sembra che due canzoni come “Santa Maria” e “Vorrei cantare la vita” abbiano quasi un potere superiore rispetto alle altre, sembrano quasi risultare maggiormente incisive. E’ semplicemente una impressione oppure i due brani rivestono un significato particolare per voi?

Giorgio: Penso che qualsiasi canzone per girare bene nell’anima della gente debba assomigliare profondamente ad una fotografia. “Santa Maria” è uno spaccato di gioventù che racconta momenti dell’adolescenza; “Vorrei cantare la vita” è un manifesto personale religioso e poetico di ciò che sto vivendo e so che questo è il momento giusto per proporla alla gente.

Gigi: sono d’accordo con te, quei due brani hanno un’impatto molto forte, pur nella loro diversità penso rappresentino due vertici: “Santa Maria” così potente ed energico, “Vorrei cantare la vita” così evocativo e delicato…sono alchimie che accadono. Dirti come avviene non è possibile.

Siete stati descritti come “il fenomeno musicale della terra reggiana”, l’utilizzo del dialetto implica che la vostra territorialità sia molto marcata e, non certo in senso negativo. Se doveste immaginarvi in un altro luogo d’Italia, quale sarebbe? Anche in quel caso il dialetto avrebbe avuto una importanza così evidente, secondo voi?

Giorgio: Non mi posso immaginare in nessun altro posto del mondo che non sia il mio crinale tosco-emiliano. Ho una parte dell’anima in Emilia mentre l’altra è in alta Maremma (Venturina) e non posso sapere se il dialetto di un altro luogo potrebbe essere così bello e coinvolgente come quello che conosco.

Gigi. Credo che mi troverei bene in qualsiasi altro posto di montagna. Pur nascendo “pianzano” che per un montanaro è un modo un po dispregiativo di appellare chi è nato in città, sono un innamorato delle alture grazie a mio padre Ero che fin da bambino mi ha trasmesso questa passione. La montagna mi da un senso di purezza e pace che non provo altrove.

Parliamo delle vostre influenze: qual è la musica che i componenti de Lassociazione ascoltano nei momenti di relax? Ci svelereste qualche “sogno di collaborazione” che vi piacerebbe tramutare in realtà?

Giorgio:Per scrivere un buon disco bisogna leggere buoni libri, ascoltare poca musica e selezionare autori d’ispirazione divina. Se dovessi elencare ciò che ascolto non finirei più perciò ti posso dire cosa ascolto ora: Howlin Wolf, Charlie Patton, Joni Mitchell.

In Italia adoro Ginevra di Marco, Massimo Zamboni, Bobo Rondelli, Cristina Donà e i Massimo Volume. In verità io essendo un autore e solo un piccolo armonicista blues collaboro già da anni con molti scrittori o collettivi per opere al di là de Lassociazione; in campo musicale adoro Paul Weller…e ognuno di noi ha un sogno. Il dialetto del crinale nella terra d’Albione?

Marco: posso dirti che ultimamente ascolto parecchio Jonathan Wilson e l’ultimo disco dei Fleet Foxes. Mi piace come entrambi ripropongono gli schemi e suoni propri degli anni ’70 in maniera molto interessante. Dimenticavo Jack White, un altro signore che ha capito che per fare del buon rock bisogna riniziare da dove è finito.

Gigi: potrei stancarti di nomi, ma per brevità posso dirti, dai King Crimson ai Sigur Ròs, dai Porcupine Tree a David Crosby, da Peter Gabriel a David Sylvian, tra gli italiani adoro Paolo Benvegnù.

Domanda conclusiva di rito: quali sono i vostri obiettivi futuri e come immaginate Lassociazione fra qualche anno?

Gigi: l’idea sarebbe quella di riuscire a salvare la magia di questi due anni vissuti insieme, con nuova musica e concerti, vedremo se saremo tanto bravi e tanto fortunati…..

 

 

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