Justin Timberlake: “Man of the woods”. La recensione

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Non si può dire che Justin Timberlake non ami spiazzare il suo pubblico e la critica specializzata: prima pubblica il teaser del suo nuovo disco “Man of the woods” con tanto di coperte navajo e barba incolta, facendo pensare ad una sua svolta country pop, e poi pubblica come primo singolo “Filthy“, un video in cui impersona un novello Steve Jobs in puro stile Timberlake con tanto di sintetizzatori e groove acido.

Ecco, questa descrizione può ben evidenziare cosa sia esattamente questo “Man of the woods“: siamo ben lontani dai fasti di un album capolavoro come “FutureSex/LoveSounds“: in questo disco molto prolisso (16 canzoni per quasi 64 minuti di musica) Timberlake non ha scelto un indirizzo preciso per la sua musica ma ha spaziato in tantissimi generi, con il risultato finale che quello che doveva essere il disco più tradizionale di Justin, pienamente nel solco della tradizione musicale americana celebrata con un classicissimo “back to basics“,si trasformi invece in un disco che sembra opportunistico e nulla più.

Capiamoci, l’ex ragazzino dei Mickey Mouse Club è uno degli artisti più brillanti di questi ultimi due decenni e ha una innata tendenza a far diventare oro tutto quello che tocca o che canta, ma con “Man of the woods” dimostra di avere fatto un errore nella sua vita perfetta. Dopo la già citata “Filthy” troviamo “Midnight Summer Jam“, una delle canzoni migliori del disco grazie alla “solita” collaborazione con Pharrell Williams, seguita da un pezzo assolutamente insipido come “Sauce“.

Il ritorno alle radici americane si ha con la title-track “Man of the Woods” e con il soul acustico e macchiato di gospel del singolo “Say something” cantato insieme alla nuova stella del country Chris Stapleton: anche “Higher, Higher” è un pezzo niente male che strizza l’occhiolino a Stevie Wonder ma “Wave” con la sua speranza di mettere insieme un allegro pezzo country con chitarrina in levare con il beat di una slowjam (e tanto di fischiettio) ha fatto saltare i nervi a più di un ascoltatore.

Ascoltando “Supplies” si ha la sensazione che non sia nemmeno un pezzo di Timberlake ma piuttosto il parto della mente di qualche gang musicale che ha deciso di fare trap usando dei mandolini: subito dopo arriva “Morning Light” che vede la partecipazione di Alicia Keys a risollevare il livello del disco con il suo soul pop ben realizzato prima dell’interludio musicale di “Hers” e di “Flannel“, forse la canzone peggiore del disco, una ballata country che più melensa non si può e che mi ha suscitato uno sguardo di disapprovazione.

Con “Montana” Timberlake si traveste da The Weekend con un risultato finale anche apprezzabile e con “Breeze Off the Pond” si ha il vero ritorno alle radici con una melodia che funziona e con la voce che gioca con le armonizzazioni vocali, ma la vera svolta si ha con “Livin’ Off the Land“, brano guidato da un riff di chitarra e dal martellamento del basso che richiamano alla mente i RHCP, il tutto impreziosito dalle tastiere. Il disco si avvia verso la fine con “The Hard Stuff” e con “Young Man“: nella prima la fanno da padrona la drum machine mentre nella seconda i vari interventi qua e là della moglie Jessica Biel e del piccolo figlio Silas sono a dir poco fastidiosi e danneggiano la canzone.

Che dire, “Man of the woods” mi ha deluso. Immagino che nella testa di Timberlake esso avrebbe dovuto rappresentare il ritorno alle radici e al country-soul che tanto piace al pubblico americano, ma l’operazione non riesce e ci si ritrova alla fine tra le mani un disco pasticciato e condusionario. Il problema è che questo disco ha creato fraintendimenti fin da subito con la pubblicazione dei singoli che hanno letteralmente fatto a cazzotti tra di loro per diversità di generi e stili: non so se sia anche colpa dei compagni di lavoro come i Neptunes e Timbaland o il fatto che ormai Justin sia un padre di famiglia e non più il giovanotto che flitrava con tutte in smoking, sta di fatto che il prodotto finale risulta poco amalgamato e i testi del disco non hanno praticamente spessore (leggetevi quello di “Sauce“). Bisogna però dare a Cesare quel che è di Cesare e dire che Timberlake avrebbe potuto serenamente produrre un classico disco r’n’b da classifica con una mano legata dietro la schiena semplicemente per fare cassa e invece ha rischiato con questo disco: almeno l’onore delle armi gli va concesso.

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