Se si dovesse fare una classifica a punti tra i parenti delle star della musica che hanno continuato a pubblicare materiale sonoro dei loro cari (?) compianti per aggiudicarsi cifre a molti zeri ricevendo nel contempo tanti “amorevoli” pensieri da parte dei fans dei suddetti, tra i primi posti, insieme a Courtney Love, i parenti di Jimi Hendrix e il padre di Amy Winehouse, si piazzerebbe di sicuro a furor di popolo Mary Guibert, madre di Jeff Buckley e gestrice degli affari del figlio dopo la sua dipartita dovuta ad una nuotata spericolata nel Mississippi.
Non voglio dilungarmi troppo sul comportamento degli eredi delle star della musica, questione spinosa e che potrebbe protrarsi per ore e ore senza arrivare ad un punto di arrivo: nel caso di Jeff Buckley, però, possiamo notare come in buona parte non sia accaduto quello che è successo in altri casi (leggasi “The Home Recordings” di Kurt Cobain, vero e proprio insulto alla memoria più che tributo). Per nostra fortuna i suoi vari dischi postumi “Mystery White Boy”, “Live a l’Olympia”, “Live at Sin-é (Legacy Edition)”, “Grace Around the World” e “Sketches for My Sweetheart the Drunk” sono stati semplici dimostrazioni di un talento a dir poco cristallino di cui il mondo ha potuto approfittare davvero troppo poco. E anche questa nuova uscita “You and I“, ha un senso se ci si approccia ad esso con questo pensiero.
Chi già conosce Jeff Buckley (come me e come tanti altri della mia generazione) sa benissimo di cosa sto parlando: ho passato ore, giorni, settimane a consumare “Grace“, uno dei migliori dischi degli anni ’90 e forse di tutto il secolo scorso, un album che fece scoprire al mondo un talento innato, una voce meravigliosa, una rabbia giovanile pura e primigenia, in poche parole la quintessenza del rock. E che continua a far innamorare migliaia di giovani ascoltatori che nella voce e nelle parole di Jeff trovano un naturale punto di approdo.
I più “vecchi” come me sicuramente diranno che non vedevano proprio la necessità di questa operazione commerciale, e forse hanno ragione, ma ascoltando il disco si capisce molto meglio il background musicale di Buckley, che già era venuto fuori con le cover di “Grace” (“Hallelujah” di Leonard Cohen, “Lilac Wine” di Nina Simone e “Corpus Christi Carol” di Benjamin Britten). Al netto delle registrazioni scelte per questo disco di tributi ( si parla di 10 canzoni di cui 2 originali, una versione di “Grace” acustica e poi “Dream of you and I“), si capisce come la forza di questo cantante fosse nell’assorbire la canzone degli altri e poi personalizzarle. Il disco mostra anche come Buckley non avesse preconcetti e spaziasse moltissimo nella musica che ascoltava, passando da “Just Like A Woman“ di Bob Dylan a “Calling You“ di Jevetta Steele, canzone resa celebre dal film “Baghdad Cafè”. Le altre canzoni sono due cover degli Smiths (“The boy with the thorn in his side” e “I know it’s over”), una cover di Sly & The Family Stone, “Everyday People“, “Night Flight” dei Led Zeppelin, “Don’t Let The Sun Catch You Cryin’” di Louis Jordan e lo standard blues “Poor Boy Long Way From Home“.
Dieci canzoni diversissime per autori, stili e suggestioni, con un solo punto in comune, ovvero la chitarra e la voce di Jeff: questa è forse la cosa più bella di “You and I“, riascoltare lo stile e la bravura di questo ragazzo (le registrazioni sono dei tempi di “Grace”, quindi al suo apice di carriera) che affronta tutti quelli che considera suoi capisaldi musicali senza nessuna paura ma anzi plasmandoli a sua immagine (forse sarebbe meglio dire suono) e somiglianza. Al netto delle considerazioni su quanto sia “etico” ritirare fuori con cadenza scientifica del materiale bootleg di un artista deceduto per fare semplicemente cassa, il disco è pieno di musica vera, senza lavorazioni successive, venduta così com’è, grezza e potente. Forse il pregio maggiore di questo disco è far conoscere alle generazioni di oggi un talento puro dei tempi di ieri, strappatoci troppo presto dalle mani e dalle orecchie da un gorgo di un fiume. Wait in the fire, Jeff.