Jamiroquai: “Automaton”. La recensione

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Dopo sette anni di silenzio dal precedente “Rock Dust Light Star” venerdì 31 marzo è stato pubblicato “Automaton“, ottavo album in studio del gruppo funk/acid jazz inglese Jamiroquai, per l’etichetta Virgin EMI. Il disco, prodotto da Matt Johnson e dal leader del gruppo Jay Kay, ha visto Joshua Blair e John Prestage prestarsi alla parte ingegneristica del suono mentre JP Chalbos si è occupato del mastering e Mick Guzauski del missaggio. La band (composta da Jay Kay alla voce, Matthew Johnson alle tastiere, Paul Turner al basso, Rob Harris alla chitarra, Derrick McKenzie alla batteria e Sola Akingbola alle percussioni) ha cominciato a scrivere questo disco nel 2013, poi c’è stato un “incidente”, ovvero le due figlie di Jay Kay che hanno dovuto giocoforza interrompere la scrittura del disco.

Il disco è stato presentato così da Jay Kay: “L’ispirazione per “Automaton” viene dal riconoscimento della crescita dell’intelligenza artificiale e del ruolo della tecnologia nel mondo di oggi e di come noi esseri umani stiamo cominCciando a dimenticare le cose più semplici, piacevoli ed importanti della nostra vita, compresa l’attenzione per l’ambiente in cui viviamo e le relazioni tra di noi come esseri umani”. Non per niente sia sulla copertina del disco che nel video del singolo “Automaton” il cantante indossa un particolare copricapo animato che vuole anche trasmettere un messaggio preciso, ovvero fermare l’estinzione degli armadilli.

Il disco è composto da 12 canzoni e si apre con “Shake It On“, brano che dà subito l’idea di cosa ci dovremo aspettare da questo nuovo lavoro dei Jamiroquai: basi digitali e suoni minimali per un jazz/funk più moderno ed evoluto, molto contaminato dall’elettronica ma senza perdere l’identità che ha reso la band famosa nel mondo. A completare la prima terna di canzoni ci sono la titletrack lanciata come primo singolo e “Cloud 9“, uno dei brani al momento più suonati in tutta Europa anche grazie ad un video molto accattivante con la presenza della bellissima Monica Cruz.

Subito dopo troviamo un terzetto di canzoni che ci catapultano ai bei tempi dei Jamiroquai che facevano ballare tutti con il loro funk al sapore di sperimentazioni jazz e pop: “Superfresh” è la canzone un poco più elettronica delle tre, mentre in “Hot Property” il basso la fa da padrona e riporta alla mente “Body language” dei Queen e “Something About You” è invece la canzone più funky delle tre, con quella punta di Daft Punk dei tempi di “Discovery” che rende impossibile non muoversi dalla sedia.

I bonghi introducono “Summer Girl“, brano estivo da ascoltare alla guida della propria auto (e se siete Jay Kay potrebbe tranquillamente essere una Ferrari) mentre “Nights Out in the Jungle” è il brano quasi strumentale del disco, con pochissime liriche e dal ritmo compulsivo e ossessivo: di ritmi da giungla si nutre anche l’inizio di “Dr Buzz” che subito muta pelle anche durante la canzone stessa e mostra come i Jamiroquai appiano ancora giocare con la musica.

Ci avviamo verso la fine del disco e troviamo “We Can Do It“, canzone che onestamente suona come un qualcosa di già sentito e non dona niente al disco: il funky sotto steroidi e dub-step di “Vitamin” sembra la colonna sonora perfetta per un videogioco di corse automobilistiche (e questo è un tema ricorrente nelle canzoni scritte da Jay Kay) mentre “Carla” è la degna conclusione di questo disco, con la sua progressione basso e batteria che si impreziosisce con la chitarra e con la voce

Automaton” si è fatto attendere per sette anni ma il risultato è molto apprezzabile: è un disco che ingloba molte esperienze musicali e se proprio dovessimo dargli un’etichetta parleremmo di pop/funk/acid jazz/disco/proto-house. Questo può solo rendere l’idea di quanto i Jamiroquai riescano ancora a spaziare nella musica partendo solo da un “semplice” funky jazz per espandere le proprie possibilità e i campi musicali da contagiare, contaminare ed esplorare. Era un ritorno molto atteso e non deluderà i fans della band né i tanti appassionati: questo è un disco piacevolissimo, gioioso, ben suonato, dove il basso e le tastiere riescono ancora a fare la differenza nonostante tutti i trucchetti tecnologici che potrete trovare qua dentro. E in tempi di austerità come questi il ritorno di una elite musicale come quella della band inglese è quasi una benedizione. Ci sono dei passaggi a vuoto (“Superfresh”, “Hot Property” e “We can do it”) ma sono assolutamente giustificabili in un disco così ispirato, sperimentale e che sfida le leggi del tempo con i suoi elementi poco ortodossi.

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