Henry Rollins “Spoken words” a Bologna. Il reportage

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Henry Rollins | © Kevin Winter/Getty Images

Nel roboante rumore sanremese che tutto copre e tutto monopolizza, alcuni spettacoli non si fermano ma continuano, resistono e danno vita a momenti del tutto particolari.
In piena italica kermesse canora un artista del tutto fuori dal comune, tale Henry Rollins (al secolo Henry Lawrence Garfield), cantante della band di punk rock californiano Black Flag e a tempo dedito a degli spettacoli “spoken-words“, in cui Henry si mette a nudo e racconta agli spettatori la sua vita da rocker, il suo girare il mondo e la sua visione sulle cose che lo circondano, da internet alla guerra, passando per le città che ha visitato e i giovani con cui ha parlato.

Uno di questi spettacoli si è tenuto pochi giorni fa a Bologna, all’Estragon, ed ho avuto il piacere e l’onore di ascoltare le parole franche e schiette di un uomo che, passata la cinquantina, ha deciso di raccontare se stesso non solo attraverso le sue canzoni ma anche attraverso i suoi pensieri.

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Henry Rollins | © Kevin Winter/Getty Images

Quando arrivo nella sala, i posti a sedere occupati sono una cinquantina (diventeranno un centinaio a spettacolo finito) ed un pubblico molto eterogeneo è in attesa di questo brizzolato e palestrato cantante e di quello che avrà da dire.

Alle 21 precise Henry si presenta sul palco, tra l’applauso dei presenti, e ci comincia a spiegare come si svolgerà la serata e di quali erano all’inizio le sue perplessità riguardo uno spettacolo in Italia senza traduttore, ricordando di una esperienza terribile nel tour europeo del 1987 dei suoi Black Flag con un traduttore di nome Peter dalla flemma invidiabile ma dalla capacità linguistica molto scarsa. Per evitare fraintendimenti, Henry cercherà di parlare il più semplice possibile per farsi capire al massimo: precauzione che si rivelerà abbastanza inutile, visto che il pubblico lo seguirà a spada tratta e gli permetterà di esprimersi al meglio e al massimo.

Dopo questa premessa, Henry Rollins comincia a parlare del fatto di come riceva tantissime email dal suo pubblico e dai suoi fans e anche da altre persone e di come risponda a tutte perchè secondo lui ogni email merita attenzione, abitudine questa che ha preso dal periodo punk degli inizi. E descrive alcune email toccanti.
La prima è quella di una madre il cui figlio è morto in Iraq e che si è vista recapitare tra gli effetti personali del figlio i CD e i DVD di Henry e di come la sua musica sia stata importante per il figlio.
La seconda è di un uomo che, coinvolto in un’azione di guerra contro un edificio nemico, dopo aver sparato da solo contro il palazzo, abbia poi scoperto di aver ucciso un ragazzino iracheno innocente e di come volesse suicidarsi per questo.
E la terza è di una ragazza che invia delle foto di sè nuda ad Henry e gli chieda se secondo lui lei abbia un brutto corpo perchè è ancora vergine e ha paura di non avere nessuno accanto a sè.

A tutte queste email, così eterogenee, Rollins risponde personalmente, cercando di consigliare, consolare e suggerire la sua visione sulle cose, e questo gli permette di cominciare una riflessione più ampia di come Internet abbia cambiato il modo di interagire tra le persone, di come i ragazzi usino la rete per le loro domande perchè non hanno più nessun contatto “umano” di cui fidarsi e di come abbia fatto uscire, grazie all’anonimato della rete, anche i codardi fuori dalle loro tane, codardi che si permettono di furoreggiare in rete perchè non riescono a farlo nella vita reale.

Da Internet si passa ad una riflessione sui 50 anni compiuti da poco dal performer, 50 anni che per una persona normale possono anche essere fighi ma che nel mondo del rock ti avvicinano a Tutankhamon. 50 anni vissuti spesso a New York, città che il cantante adora e che descrive come un libro, con ogni concerto come un capitolo della sua vita, come quella volta che un omone, durante un concerto, saltando dal palco sulla folla, ha schiacciato una ragazza facendole perdere l’occhio destro… eventi lieti e meno lieti, come quella volta che incontrò i Metallica e suggerì loro un riff (senza avere mai un ringraziamento) o quella volta che fu accoltellato all’addome dopo un concerto…

…Eventi passati, che sfumano nell’immagine del Santa Monica Boulevard, dove vive adesso, un mondo pieno di ragazzi e ragazze che si prostituiscono anche a rischio della loro vita, un mondo dove ad una mostra di quadri di Captain Beefheart insieme a Joe Cole e Matt Groening puoi incontrare Dennis Hopper e cercare di ripetere con lui la scena folle del film “Velluto Blu” (che vi consiglio di vedere) tranne poi vederlo scappare via terrorizzato a bordo della sua Mercedes.

Ci avviamo ormai alla fine dello spettacolo, e Rollins racconta la sua ultima esperienza, ovvero il lavorare per il National Geographic per alcuni documentari in giro per il mondo studiando le interazioni uomo-animale. Documentari in paesi come il Vietnam e l’india, dove ti tocca anche mangiare un serpente, oppure l’Africa e Cuba, dove ti può capitare di incontrare un traduttore folle, oppure la Corea del Nord, dove hanno un umorismo pessimo… Documentari che ti fanno riflettere su quale sia la differenza tra la vita avventurosa e la vita di casa, e di come Rollins odi la tranquillità di casa e di come sia un “workaholic”. E di che senso abbiano le guerre, se non un unico, che è il profitto.

E su questa amara riflessione, dopo 2 ore e 25 minuti, lo spettacolo si chiude, con Rollins che ringrazia il pubblico per la pazienza e si defila dietro le quinte.
Ringraziamenti che sento di dover almeno ricambiare, vista la schiettezza e la sincerità con cui Henry ha affrontato il pubblico italiano senza peli sulla lingua. Una sincerità che si vede poco in giro, ultimamente.

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