Green Day: “Revolution Radio”. La recensione

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Green Day - Revolution Radio - Artwork

C’è stato un tempo, tanti anni fa, in cui i Green Day erano solo pura violenza musicale, rabbia giovanile e parole incomprensibili blaterate ad un microfono da Billie Joe Armstrong e accompagnate dal basso di Mike Dirnt e dalla basteria pestatissima di Trè Cool. Nel tempo i testi sono diventati più comprensibili e schierati, è sfumata la rabbia giovanile e al suo posto si è piantato uno sguardo disincantato, ironico e caustico sulla società americana odierna e da tre i membri sono diventati quattro (si è aggiunto dal 2012 il chitarrista Jason White che ha suonato con loro come touring member dal 1999).

Cosa ha portato a questa maturazione personale e musicale? Forse l’aver avuto nel tempo dei figli, forse l’essere invecchiato, forse le cose che attorno a te cambiano e maturano, forse i problemi di un ragazzino negli anni ’90 non sono gli stessi di un adulto quarantenne oggi, forse un po’ tutte queste cose. Fatto sta che il vero e proprio cambiamento si è avuto nel 2004, con l’album “American Idiot” e con il successo mondiale di “Boulevard of broken dreams” che ha mostrato un nuovo lato del gruppo, più maturo e consapevole, con la cattiveria e la velocità dei primi anni che hanno segnato il passo per una caustica lucidità. Il nuovo disco, “Revolution Radio“, non fa mistero di inserirsi in questo filone: ne è una controprova il singolo scelto come lancio del disco, “Bang Bang“, dedicato, come spiega lo stesso Armstrong, “alla cultura degli omicidi di massa che stanno succedendo ora in America miscelata con la tendenza narcisistica all’uso dei social media”.

Green Day - Revolution Radio - Artwork

D’altronde la stessa band, usando un gioco di parole, ha detto che questo nuovo disco (il loro dodicesimo in studio) era “più che un makeover era un make under” e che il disco non subiva nessun riflesso dalla trilogia precedente ¡Uno! ¡Dos! and ¡Tré! e che il gruppo aveva tentato di scrivere e suonare per il gusto di farlo. I Green Day avevano anche spiegato che l’intero album rifletteva l’attuale stato di violenza che si vive negli Stati Uniti e a leggere i testi direi che il punto è stato centrato in pieno: si avverte lo smarrimento di una intera generazione in “Somewhere Now“, la voglia di uccidere per comparire sui media in “Bang Bang” e nella title-track il riferimento è assolutamente esplicito(“Sing like a rebel’s lullaby/Under the stars and stripes/For the lost souls that were cheated” “Canta come se fosse la ninna nanna di un ribelle/sotto le stelle e le strisce/per le anime perse che sono state truffate”).

Say Goodbye” con il suo rock molto legato alla batteria ironizza sul sentimento religioso degli americani misto alla venerazione per la polizia ma con “Outlaws” il disco si prende una pausa dal punk rock imperante e confeziona un piccolo gioiello sia nella musica che nel testo e si ammanta della nostalgia per il ricordo che si ha di quando si è giovani e si può puntare sulla propria età per chiedere perdono delle malefatte compiute: quando si cresce questa scusa non vale, purtroppo, più.

La canzone “Bouncing Off the Wall” passa senza infamia e senza lode e porta a “Still Breathing“, una sorta di ritratto generazionale della gioventùà americana che sopravvive a tutto: ai proiettili vaganti, alle guerre, alla povertà, alla assenza dei genitori. L’album si bilancia con le scanzonate “Youngblood” e “Too Dumb to Die”  prima di reimboccare la strada della riflessione con “Troubled Times” e mostrare la canzone più interessante del disco, “Forever Now“, un pezzo di 6 minuti e passa diviso in tre parti: la prima, “I’m Freaking Out”, è un classico punk rock, la seconda, “A Better Way to Die”, mostra degli interessanti controtempi e la terza, “Somewhere (Reprise)” riprende la prima canzone del disco come a chiudere un circolo ben preciso, un discorso iniziato e finito con la stessa voce e con le stesse parole. L’album però non è concluso, dato che ad attenderci alla fine troviamo l’acustica “Ordinary World“, una dolcissima canzone d’amore completamente composta e cantata da Billie Joe Armstrong.

Con “Revolution Radio” i Green Day riprendono il filo lasciato penzolare dopo “21st Century Breakdown” e lo riannodano al presente di un’America sempre più pericolosa, violenta e vittima delle proprie luci ed ombre: Armstrong e soci non si nascondono dietro ad un dito e denunciano a tutto spiano il clima velenoso che si respira oltreoceano ma questa volta non hanno la solita soluzione pronto cassa per risolvere tutti i problemi, anzi, chiedono e interrogano se stessi e gli altri su quale sia la soluzione migliore da adottare. Il disco ha una formula collaudata ed è forte di un rodaggio ormai ventennale e non viene mai meno alle sue aspettative con alcuni picchi di notevole spessore (“Bang Bang“, “Outlaws” e “Ordinary World“) che mostrano come ormai i ventenni terribili del punk rock californiano siano diventati degli adulti quarantenni. Con ancora tante cose da dire.

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