Debuttare in un mare di generi è compito arduo, e qualsiasi band italiana che si ritrova a firmare il primo contratto discografico sa bene che deve ritagliarsi uno spazio nell’identità personalizzata dei generi musicali per poter raccontare qualcosa ed attirare l’attenzione. Fenomeno degli ultimi dieci anni è la nascita delle band che usano la musica come strumento di protesta, alimentate dalla situazione politico sociale poco accomodante, e altro fenomeno è la sperimentazione musicale. “Sperimentale” più volte viene abbinato ad “avanguardia” o a “novità“, ma in realtà poche volte risulta essere un tentativo di valida spinta in avanti, soprattutto per quanto riguarda la discografia musicale internazionale. In ambito italiano è interessante lo scenario che ci ritroviamo attualmente, ed è assai vario il repertorio al quale ci viene data la possibilità di attingere, più volte repertorio dalla valida proposta, altre volte un po’ meno. Prima i cantautori, poi il rock, in seguito una radiazione pop e poi ancora un fenomeno pop rock, accompagnato dalla fascia underground di un powerpop leggero condito di un pizzico di cantautorato che non fa mai male.
Mettere insieme tanti elementi più volte inconciliabili tra loro imprevedibilmente dà risultati inaspettati, e se prima sperimentare voleva dire rischiare, attualmente sembra quasi essere un cuscino di sicurezza. I Galleria Margò nascono poco tempo fa e decidono di esporsi al grande pubblico raccontandosi in “Fuori Tutto“, quasi a voler raccontare un po’ di tutto e un po’ di niente, lasciandosi andare per alcune cose e trattenendosi per altre. Grido di protesta è ormai fuori moda quando ci riferiamo a testi musicali giovani, ma in fondo non è sempre lo stesso sentimento a spingere l’espressione di protesta in musica? Che sia grido o sia soltanto mascherata da una melodica pop, la protesta è assai viva nei testi della band, ma in fondo se il background culturale e sociale è lo stesso per tutti noi, non siamo accomunati dalla stessa gioia di emergere?
Emergere parlando ironicamente male dell’amore o semplicemente tirando fuori il tema del lavoro è cosa assai facile, ma voi ci pensate ad infilarlo tra una ballata power pop e un pezzo dalle contaminazioni rock? Il sapore è quello assai internazionale delle tessiture synthetiche da tastiera, ma in fondo siamo confini aperti per le contaminazioni musicali e culturali, e allora perché non lasciarci andare? “Giro di vite” ci distoglie un po’ dal genere d’origine dell’album con qualche archetto folk dal canto tanto “Amaro“, controcorrente o alla moda? L’ascolto potrà darvi qualche indizio… e “Glitter”, un buon esordio energicamente scanzonato. “Cupido se ne fotte” è la critica all’amore mainstream, ai lucchetti sui ponti e ai multisala del giovedì. Ci sembra di navigare in alcune influenze baustelliane, tinte di subsonica a tratti e che strizzano gli occhi agli amari, ma in fondo si parte da una buona poetica di base, il che non può far altro che sfamare un bisogno di rock futuro. “Linea Gialla“, “Ondevitare” e “Distretto Nove” riescono ad andare oltre senza andare altrove e ci fanno concludere in bellezza l’ascolto di un disco che si propone compatto sin dai primi secondi di musica.