Frank Ocean: “Blond(e)”. La recensione

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1998

Quando esce un nuovo disco di cui tutti parlano per moltissimo tempo facendo salire le aspettative su di lui, bisogna sempre stare attenti al tipo di prodotto che poi ci si ritrova nelle orecchie e cosa realmente cerchiamo in quell’album. “Blond(e)” di Frank Ocean è uno di questi casi, forse il più lampante che mi sia capitato in questi mesi.

Il disco del creatore del precedente “Channel ORANGE” ha avuto molte aspettative riposte su di lui, sia grazie all’aura attorno al suo autore sia alle notizie circolate prima e dopo la sua uscita, come quella del numero incredibile di download illegali nella settimana precedente al release o l’impossibilità di partecipare alla prossima cerimonia dei Grammy per la mancata candidatura da parte del suo management (Ocean non è più sotto contratto di una major). Detto questo, mi sono voluto documentare in rete sulle critiche ricevute oltreoceano da questo disco e devo dire che sono tutte di livello altissimo. Saltando da un giornale ad un altro, ho letto di “produzione sognante e astratta“, di “capolavoto dell’era digitale del pop psichedelico”, di “uno dei dischi più intriganti mai fatti” e di “un album di enigmatica bellezza, velenosa profondità e intensa emozione“.

Ovviamente, con delle premesse del genere, era ovvio che anche le mie aspettative fossero alte e così mi sono dedicato anima e corpo (e padiglioni auricolari) all’ascolto di questo nuovo capitolo della carriera di Frank Ocean: ammetto subito che ho faticato non poco per cercare una chiave di lettura di questo album, molto criptico, duro e politicamente scorretto al limite della crudezza espressiva, soprattutto nei testi. E me ne sono fatto un’idea abbastanza lontana da quello che ho letto in giro. E vi spiego il perchè.

Partiamo dal presupposto che se siete quel pubblico che cerca in un disco nuovo la voce del cantante, posso dirvi a occhi chiusi che potete tranquillamente non comprare “Blond(e)“: il punto forte di Ocean non è certamente la potenza delle sue note vocali ma la sua capacità espressiva, il suo riuscire a raccontare storie al di là del mezzo musicale usaro (un po’ alla Drake, per capirci). Questa capacità, che era evidente soprattutto in “Channel ORANGE“, in questo disco è venuta meno, a mio avviso, trasformandolo in una noiosa cronistoria delle sue avventure di vita perdendo quella magia sonora che era presente in quell’album. Non ho nulla contro la voglia di cambiare di un autore ma anche questa deve avere un senso.

Eppure il disco era cominciato bene con il singolo “Nikes“, un pezzo slowtempo molto psichedelico che critica la società materialistica che pensa solo al Dio Denaro senza accorgersi di come per esempio la gente muore (Ocean cita anche l’assassinio di Trayvon e le morti dei rappers Pimp C e A$AP Yams). Neanche la scelta di modificare la voce dispiace, fa tutto parte del gioco. Subito dopo troviamo “Ivy“, un brano molto piacevole e dal forte impatto pop che ricorda come impostazione il r’n’b più canonico: vi avverto però che questa è una vera e propria eccezione in tutto il disco, grazie al lavoro alle spalle di Jamie XX e Tyler The Creator. Con “Pink+White” torniamo al vibe che ha reso famoso “Channel ORANGE” grazie ad un midtempo molto strumentale e ritmico impreziosito dai cori in sottofondo di Beyoncè.

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Frank Ocean – “Blond(e)” – Cover

Discorso a parte in “Blond(e)” lo meritano i cosiddetti skit: “Be yourself” dove una mamma fa le raccomandazioni del caso al figlio che sta per andare per la prima volta al college, “Solo (reprise)“è completamente ad appannaggio del rapper Andrè 3000, “Good guy” dove parla di un’occasione mancata sul piano omosessuale (Ocean non ha mai fatto mistero di essere bisessuale), “Facebook story” narra di una storia finita per colpa di un’amicizia non accettata su Facebook e “Close to you” è una breve cover di un vecchio brano cantato di Stevie Wonder. Ebbene, in questo disco non ne capisco il senso, non mi hanno colpito in nessu modo, non mi hanno dato niente. Non sono contro le canzoni brevi (adoro “Passaggio” del Banco, per dirne una) ma in questo caso non ne ho afferrato la funzione.

Nel disco tra le altre tracce troviamo “Solo“, una canzone molto malinconica voce e pianola, molto elementare e che si divide tra parlato e cantato. Con questa canzone entriamo in una parte del disco dove viene privilegiato il parlato rispetto al cantato: questa scelta si ritrova in “Skyline to” mentre risalta nella melodica “Self Control” il finale quasi orchestrale per uno dei pezzi migliori del disco. Con “Nights” entriamo nella seconda parte del disco: a circa metà canzone il beat diventa più oscuro e intimo e cambia, mostrando anche la sperimentazione cacofonica di “Pretty sweet“, l’introspezione un po’ piatta di “White Ferrari“, lo slowtempo di “Siegfried“, le venature gospel di “Godspeed” e la chiusura di “Futura Free“, un brano diviso in due parti: nella prima Ocean racconta la sua paura della fama che lo sta soffocando e la seconda parte comprende degli spezzoni di interviste ai suoi più cari amici.

Ho ascoltato questo disco molto volte e non sono ancora riuscito a capire dove Frank Ocean sia voluto andare a parare a livello musicale: l’intero “Blond(e)” non sembra altro che un pretesto sonoro per raccontarci la sua vita, le sue paure, le sue relazioni, il suo amore per le droghe, una sorta di vagheggiare tra i mille pensieri nella sua mente senza trovare pace, un porto sicuro, un punto di approdo. E peccato, perché questo disco un paio di tracce di spessore le ha eccome (“Nikes”, “Ivy”, “Self Control”) ma molte altre tracce sembrano “costruite” senza che si vede la magia musicale che ha dato origine ad un disco come “Channel ORANGE”: ripeto, non è assolutamente un male sperimentare nuovi suoni e nuove forme di espressione musicale, ma vanno anche indirizzate, non pescate a caso come le carte da un mazzo. Questo disco è un guazzabuglio di idee che troppo poco spesso centrano il bersaglio e che spesso scadono nel piattume e nella sonnolenza. Così non va.

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