Era uno degli album più attesi del 2012 almeno in Italia, dopo vari annunci nel corso degli ultimi due anni che avevano decretato l’esaurimento della vena artistica del Maestro Francesco Guccini: registrato in un mulino nella campagna, è arrivato “L’ultima Thule“, il disco del ritorno alla musica di Guccini. L’album, che contiene solo 8 tracce, comincia con una parte parlata che dà il via a “Canzoni di notte n.4“, dedicata alla notte e al mondo campagnolo che ormai sta scomparendo sostituito dal bitume e dalla modernità: sin dalle prime note si riconosce lo stile inconfondibile di Guccini, quello fatto di poche note, di una chitarra a farla da padrona e di un accento bolognese inconfondibile.
La seconda canzone del disco è “L’ultima volta“, la canzone scelta come singolo promozionale del disco e che parla di ricordi dell’infanzia e di un amore “assoluto e violento” della gioventù, con una armonica a fare da sottofondo. Memorie dell’infanzia che tornano in “Su in collina” (narrazione di un incontro tra partigiani e adattamento in italiano di una poesia in dialetto bolognese di Gastone Vandelli) e che si trovano praticamente in tutto il disco: i settantadue anni di Guccini cominciano a pesare non solo sul fisico (dato che ha annunciato che non farà concerti a seguito di questo disco) ma anche sul modo di guardare al mondo, che preferisce raccontare il passato piuttosto che il presente, forse perché più bello, più vero, almeno agli occhi di Guccini.
Il disco prosegue il suo filo tra ricordi e amarezza con “Quel giorno d’aprile“, canzone scritta con Beppe Dati e che ha un che di De Gregori, sia nel testo che nella costruzione della musica, con un ritratto d’Italia che ci porta ad essere lì ad aspettare, come “l’anima che dorme davanti ad una scatola vuota“. Con “Il testamento di un pagliaccio” e la sua “pagliacciata che chiamava vita” siamo in pieno tempo da banda di paese e si respira una certa aria da canzoni goliardiche, così diffuse in una città universitaria come Bologna, con alcuni richiami alla vita politica attuale del nostro paese.
“Notti” è un piccolo “affresco alla Guccini”, un elenco delle notti che prima o poi abbiamo vissuto tutti nella nostra vita e che la voce del cantante descrive benissimo, mentre “Gli artisti” parla della categoria di cui Guccini volente o nolente fa parte e suona un poco alla Brassens o alla Brel, una sorta di ritratto autoreferenziale di un mondo di bambini un po’ troppo cresciuti che in realtà “nascono un po’ come tutti, come individui normali”. Il disco si chiude con “L’ultima Thule“, brano che dà nome al disco e che risuona di chitarre elettriche e di pirateria, di romanticismo e di viaggi leggendari come solo la vita sa essere, di naviganti che doppiano il Capo Horn e che viaggiano in lungo e in largo per il mondo sapendo che purtroppo la loro storia “si perderà in un’ultima canzone di me e della mia nave anche il ricordo”.
Il disco del ritorno (almeno alla musica suonata) di Francesco Guccini è un ritorno dolce e amaro, un ritorno dal sapore di campi di grani e ricordi in soffitta, un ritorno che segna in modo netto il mondo come lo vediamo noi e come lo vede un uomo di settantadue anni che forse è stanco di essere un’artista e vorrebbe essere solo un uomo con la sua vita ed i suoi ricordi dell’infanzia. Un disco che fa riflettere per le parole che dice. E un bentornato al Maestro Guccini.
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