E’ uscito “Dream Theater“, il dodicesimo album in studio dell’omonimo gruppo statunitense per l’etichetta RoadRunner Records. Il nuovo progetto della band nata a Boston nel 1985 e composta da James LaBrie (voce), John Petrucci (chitarra), John Myung (basso), Jordan Rudess (tastiera) e Mike Mangini (batteria) è arrivata al suo 29esimo album complessivo, nato originariamente nell’aprile del 2012 durante il tour “A Dramatic Tour of Events” e registrato al Cove City Sound Studios di Glen Cove a New York.
Cominciamo a parlare del disco: il nuovo omonimo album dei Dream Theater è composto da nove canzoni per quasi 68 minuti di ascolto ed è stato prodotto da Len Sluetsky e mixato e registrato da Richard Chycki. Quindi parliamo di quasi 7 minuti e mezzo a brano. Questa media non spaventerà i fans che già conoscono questo gruppo, mentre potrebbe far strabuzzare gli occhi a chi non conosce i DT.
L’album è introdotto dalla strumentale “False awakening suite” e subito dopo parte con “The enemy inside“, brano che dimostra come i Dream Theater, nonostante gli anni passati ed i cambi di formazione, siano fondamentalmente sempre gli stessi. E ce lo dimostrano ampiamente con “The looking glass“, brano perfetto sia per la melodia che per la parte strumentale, che si fondono senza far prevalere l’una o l’altra e che ricorda molto altre canzoni della band nei suoi tempi migliori di “Images and words”.
“Enigma Machine” si introduce con una celestia e dopo lascia spazio alla chitarra epica di Petrucci ed è il primo brano interamente strumentale dai tempi di “Stream of Consciousness“, contenuta in “Train of Thought” (2003). Dopo troviamo il singolo “The bigger picture” che con l’ assolo di pianoforte e la voce di LaBrie riporta indietro nel tempo ai primi dischi della band americana così come “Behind the veil” e “Surrender to reason” dominata dalla chitarra di Petrucci.
La penultima canzone, “Along the ride“, è il secondo singolo scelto per promuovere il disco ed è forse il suo pezzo migliore, un piccolo capolavoro di 4 minuti e 45 secondi dalla scrittura musicale “godevolissima” e dal fortissimo impatto emotivo. Il disco si conclude con “Illumination Theory“, una suite della durata di 19 minuti e suddivisa in cinque parti (la cui prima “Paradoxe de la lumière noire” è strumentale) a cui segue un easter egg strumentale caratterizzato dal pianoforte di Jordan Rudess accompagnato da un’orchestra.
“Dream Theater” ha incontrato moltissimi giudizi positivi da parte della critica e rappresenta un nuovo inizio per il gruppo dopo un periodo di transizione: è anche il primo album in cui il batterista Mike Mangini è stato interamente coinvolto nel processo di creazione e si sente tantissimo la sua integrazione. Ascoltandolo non ho potuto fare a meno di fare paragoni con i primi capolavori della band come “Images and words” ed il paragone a mio avviso è perfettamente calzante. LaBrie e soci sono riusciti a ricominciare per l’ennesima volta reinventandosi pur rimanendo sempre uguali a loro stessi, ovvero una band punta di riferimento per il genere metal. Potete dirlo tranquillamente in giro, i Dream Theater sono tornati.