Devotion: “Videostreet”. La recensione

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Devotion - "Videostreet" - Artwork

Innanzi tutto, partiamo con un pochino di storia.

I Devotion nascono a Vicenza nel 2005 e iniziano subito a comporre brani inediti (realizzando un EP) e ad affacciarsi più sul mercato europeo che su quello italiano con qualche show in Germania e Francia a supporto dei Pleymo. Il loro primo album,  “Sweet party“, del 2007, viene mixato agli Airport Studio ad L.A. da Shaun Lopez  (Deftones, Far e Will Haven) e viene pubblicato in Italia nel 2009 e i suoi brani sono scelti come colonna sonora del videogame “All Points Bulletin”.

La band vive molte esperienze live in Italia ed Europa al fianco di gruppi come Poison The Well, Linea77, A Storm of Light e persino Grandmaster Flash e torna in studio per registrare il secondo disco, “Venus”, che esce nel 2011, prodotto dagli HATE Studios e missato da Alan Douches dei newyorkesi “West West Studio” (Mastodon, The Dillinger Escape Plan, Snapcase, Sepultura).

Il disco viene trascinato dal singolo e videoclip “Timeless Beauty” e si fa apprezzare da molti addetti ai lavori con i Devotion che aprono i concerti di molti big, tra cui Lordi, Terror, Caliban,  Animals As Leaders e soprattutto Meshuggah.

Ora i Devotion, dopo un periodo di pausa alquanto complicato in cui c’era il timore (per fortuna svanito) che il cantante Pucho dovesse abbandonare la band per motivi di salute, sono tornati in piena forma e propongono il loro terzo album, “Devotion“. Il disco è un tributo e una dedica, un tributo alla vita underground e da musicista, vita di chi macina chilometri su chilometri con l’unica compagnia di un furgone semidistrutto e di pochi amici fidati, e una dedica a tutte le band che in questi tempi hanno mostrato stima ed affetto per i Devotion, fino quasi a vederli come fratelli maggiori.

I componenti della band (Pucho alla voce, Buzz al basso, Gianna alle chitarre e Cangia alle tastiere), forti di questo affetto, hanno prodotto un disco di musica rock/metal come se ne sentono pochi in giro e pochissimi in Italia, un mix molto personale e facilmente riconoscibile per questo al primo ascolto, un mix che i Devotion stessi non nascondono, come sottolinea il bassista, Buzz: “Nasciamo dall’amore per il rock/metal degli  anni ’90, portiamo nel  cuore tanto i Nirvana e gli Alice in Chains,  quanto Will Haven, Snapcase, passando per Cypress Hill e Beastie Boys”.

Tutto questo nel nuovo disco si sente in maniera esaustiva e piena: il nuovo lavoro dei Devotion è composto da dieci tracce per la durata di circa quaranta minuti e subito dall’inizio di “Wolf theory” la band mette sul piatto le sue carte. Ci troviamo di fronte ad un sound che mescola sapientemente il rock e il metal con influenze post rock e post grunge, nell’ambito di un lavoro discografico che vede nei Deftones in primis e nei Tool in seconda battuta i punti di riferimento.

Devotion - "Videostreet" - Artwork
Devotion – “Videostreet” – Artwork

Il disco affonda le sue unghiate anche nella musica della nu generation, con “Double Dragon” che sembra composta dai P.O.D. e altre canzoni come “Candle of light“, “The sound of voices” e “Traditional skin” che richiamano direttamente a gruppi come Breaking Benjamin, Three Days Grace e Bullet for my Valentine, e viene da chiedersi se la scelta della cura “americana” per quanto riguarda il sound sia casuale o meno, visto anche che in Italia gruppi del genere hanno un pubblico principalmente di nicchia e che questi lavori hanno una differenza di sound percepibile all’ascolto rispetto ad altri lavori fatti in Italia.

I Devotion, oltre a confezionare un ottimo disco, compiono anche il piccolo miracolo di non cadere nel già sentito, pericolo altissimo per un settore musicale come questo, ed il disco scorre in maniera molto piacevole (almeno per chi ama questo genere) con molti brani con buone idee e pieni di variazioni che non annoiano l’ascoltatore (si approda addirittura allo scream in brani come “Ghost” e nella musica d’atmosfera in “Apartment“).

Il mio voto finale non può che essere un buon voto per un ottimo disco che trova a mio avviso in “Double dragon” il suo pezzo migliore. Segnatevi questo nome, Devotion. Ne risentiremo parlare più in là come headliner di qualche festival europeo, ne sono certo.

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