Depeche Mode: “Spirit”. La recensione

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Era uno dei dischi più attesi di tutto il 2017 ed è arrivato: parliamo di “Spirit“, ultima fatica discografica dei Depeche Mode, concepito e pubblicato a distanza di tre anni dal fortunatissimo “Delta Machine” e che vede il supporto artistico e fotografico di Anton Corbijn, celebre film-maker e collaboratore storico della band, e quello tecnico e discografico di James Ford dei Simian Mobile Disco (Foals, Florence & The Machine, Arctic Monkeys), alla prima collaborazione con la band di Basildon, Essex.

Lo stesso “Spirit” è stato annunciato così dal frontman e cantante Dave Gahan: “Siamo estremamente orgogliosi di Spirit e non vediamo l’ora di farlo sentire a tutti. Con James Ford e il resto del team di produzione abbiamo realizzato un album che trovo davvero potente, tanto a livello di sound quanto a livello di messaggio.” Il disco esce in versione standard (fisica e digitale) oggi, venerdì 17 marzo, ma sono previste varie versioni deluxe (doppio CD con booklet di 28 pagine di foto e artwork esclusivi e 5 remix realizzati da Depeche Mode, Matrixxman e Kurt Uenala) con anche una versione doppio vinile 180g che contiene l’album standard su 3 facciate più una speciale serigrafia di “Spirit” stampata sulla quarta facciata. Non solo: il 28 aprile uscirà una speciale edizione con 9 tracce contenente un doppio LP di remix sempre di “Where’s The Revolution”.

Dopo i dati prettamente tecnici, cominciamo a parlare del disco vero e proprio: ci troviamo di fronte ad un album composto da 12 tracce che si apre con “Going Backwards“, traccia che riporta alla mente un disco come “Ultra” sia nella musica che nell’irrequietezza. Quello era un disco di transizione, quasi di sperimentazione per certi versi, ma in questo caso la lezione è stata digerita e riproposta in chiave più matura. Subito dopo troviamo il singolo di lancio del disco, “Where’s the Revolution“, canzone che abbiamo avuto modo di apprezzare in queste settimane e che sono sicuro dal vivo ai concerti farà davvero la differenza grazie al suo sapiente mix tra velocità e rabbia repressa: “The Worst Crime” è invece la ballad che non ti aspetti, il pezzo di atmosfera che le sapienti mani di Martin Gore e Andy Fletcher hanno disegnato per la voce di Gahan alla perfezione che pennella una canzone che per varie ragioni si va ad accostare a brani del loro passato come “Somebody”.

Scum” dà quella sterzata di ritmo di cui il disco aveva bisogno, quasi come in un gioco calcolato di luci e ombre, e mostra come questo sia anche un disco di sperimentazione, di prova per alcune sonorità e alcune forme canzone, di solito lontane dai Depeche: lo stessi dicasi per “You Move“, brano minimale che si insinua nella mente, ma questa sperimentazione e questo nuovo modo di concepire la musica da parte dei DM esplode con la canzone centrale del disco, “Cover Me“, che richiama alla mente “Waiting for the night” del fortunatissimo disco “Violator” e che si tiene in equilibrio tra suoni minimalisti curati al massimo e lirismo esasperato.

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Depeche Mode – “Spirit” – Cover

Con “Eternal” troviamo la prima delle due canzoni cantate da Martin Gore che, come spesso capita, lascia per sè i brani più sofferti e tormentati del disco per poter esprimere con la sua voce tutta la sofferenza di un padre che cerca di difendere a tutti costi i suoi figli. Un giro di lancette e ci troviamo catapultati nel mondo delle torch song e dei crooner con “Poison Heart” che richiama alla mente i primi dischi dei Portishead e il loro modo cupo e torbido di fare elettronica. Altra sterzata calcolata al disco con “So much love” e si parte verso la fine dell’album dove ci aspetta “Poorman“, pezzo che mostra come l’amore per il gospel dei Depeche Mode per il blues e il gospel non sia mai del tutto tramontati dai tempi di “Songs of faith and devotion” e che ha un’interessante coda strumentale finale a cui si lega ideologicamente “No More (This is the Last Time)“, brano che mentalmente si lega a “Where’s the revolution” ma che ha un suo tono molto accattivante e che vedo bene come secondo singolo di lancio del disco. Ormai siamo arrivati alla fine e ci saluta non la voce di Dave Gahan ma di nuovo quella di Martin Gore che canta di disillusione, di fallimenti, mostrando come “Fail” si leghi al nichilismo di dischi come “Music for the masses” e all’artigianal pop dei primi dischi.

Finita la spiegazione accademica, veniamo alla valutazione complessiva: “Spirit” è un disco come i Depeche Mode non ne facevano da anni. E quando dico anni intendo decenni. In questo nuovo album ogni canzone è perfettamente al suo posto, inserita in un contesto preciso e senza difetti o sbavature, e segue un filo logico segnato col sangue e col nero della disillusione, della rabbia e della lucida visione di un mondo che in questi anni ha perso punti di riferimento e sta andando alla deriva. Questo è un disco politico ma nella accezione più alta del termine, si parla dei sentimenti delle persone, dei fallimenti, dei dolori, di quella visione nichilista e razionale che negli anni Ottanta ha caratterizzato molti testi dei DM e che li ha fatti amare dal grande pubblico: se ci aggiungiamo che finalmente dopo anni e anni di linea di traccheggiamento musicale si sono visti vasti tentativi di sperimentazione e di ritorno a quell’artigianato pop che li ha resi famosi (leggasi “People are people”) possiamo davvero gridare al capolavoro. Questo è un disco lucido e rabbioso per chi non ha la coscienza addormentata e si è svegliato in un mondo popolato dai mostri generati dalle intorpidite coscienze altrui, e proprio per questo è incredibilmente un disco di speranza, che chiede di guardare alla realtà delle cose e di difendere ciò che si ha di più caro. Questo è un disco che riesce a estremizzare rock ed elettronica e a farli viaggiare su due binari paralleli trovando una incredibile fusione tra le due cose senza che l’una prevarichi l’altra ma lasciando che le due si impreziosiscano e si compenetrino lasciando noi a bocca aperta per il risultato finale. Questo, signori miei, è un disco pazzesco.

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