Una nuova intervista per MelodicaMente, un altro grande artista che si è prestato a rispondere alle nostre domande con disponibilità e tanta pazienza. Quest’oggi è la volta di Davide Santorsola, jazzista di fama internazionale, che è partito da un paesino della Puglia per arrivare a calcare i palchi di tutto il mondo con personaggi del calibro di Phil Woods e Lee Konitz. E’ da poco uscito “Stainless”, il suo ultimo disco, un progetto dai suoni molto variegati, che spaziano dai grandi classici a sonorità brasiliane, ma contiene anche brani scritti dallo stesso Davide Santorsola.
E’ appena uscito “STAINLESS”, il suo nuovo album, 15 brani che spaziano tra romanze di Puccini e classici del jazz di Gershwin e Rodgers, fino ad arrivare a suoni provenienti dal Brasile e ad opere scritte da lei. Un progetto molto ricco di sfaccettature. Come è riuscito a combinare elementi così diversi tra loro?
Credo si tratti del frutto di un lungo processo di interiorizzazione: una lenta, intensa, intima acquisizione e comprensione dei diversi contenuti e forme musicali che nel corso della mia vita, sia pure in periodi differenti, mi hanno affascinato, attratto. In “STAINLESS” ho ripercorso il mio passato nella piena consapevolezza del presente e i tasselli di un mosaico, sino a quel momento ancora un po’ sparsi qua e là, alla fine del viaggio, si sono perfettamente incastrati, dando un unico disegno.
Lei ha dichiarato che questo lavoro è un vero e proprio concept album nel quale l’ascoltatore viene posto in condizione di viaggiare tra i grandi della letteratura verso il fantastico e lo stupore. Sembra quasi una contraddizione in termini, visto l’approccio che molti hanno a Bach, Chopin piuttosto che Rachmaninoff, come ad autori ormai diventati puramente accademici, nell’accezione più “negativa” del termine.
Il primo ascoltatore della mia musica sono io stesso e dunque alludevo al mio di viaggio verso l’incanto. Non ho la presunzione di ritenere che sia così per tutti. Per quanto riguarda Bach, Chopin e i grandi classici io penso che la loro musica sia sconvolgente e del tutto viva. Se poi qualche accademico la rende noiosa, allora forse è colpa di quel tale accademico e non della loro musica.
Sembra che la parola “contraddizione” sia un leitmotiv nella sua carriera e nella sua personalità: Lei stesso ha raccontato di aver studiato nel dettaglio ogni arrangiamento ed ogni esecuzione di “STAINLESS”, ma di essersi poi lasciato andare ad improvvisazioni che talvolta, ad un riascolto, hanno sorpreso anche lei per particolari inaspettati. In tali circostanze potrebbe definirsi come posseduto dalla musica o sarebbe meglio parlare di musica che viene lasciata libera di uscire dal profondo di sé?
Credo si tratti della seconda ipotesi. È uno stato durante il quale tutto ciò che fai sembra non dipendere più da te e dalla tua volontà. Tutto diventa ad un tratto naturale, facile e lo sbaglio, se mai giunge, giunge solo perché tenti di riprendere il controllo, rompendo l’incantesimo. Il brano che rappresenta il mio elogio del “contrasto”, in Stainless, è “Light and Grey”, un mascheramento della celeberrima “Night and Day” di Cole Porter, e il titolo infatti, la dice lunga.
Una bella parentesi viene aperta sul mondo della musica brasiliana, come abbiamo anche accennato poco sopra: l’ultima traccia del disco è “7 Anéis”, composta da Egberto Gismondi. Il viaggio di “STAINLESS” si chiude, quindi, proprio in Brasile: come ha deciso che sia proprio quello il punto di arrivo?
Grazie dell’apprezzamento. In realtà non l’ho deciso, è successo perché il penultimo brano, “X 38” – una mia composizione – termina con una parte affidata al pandeiro, percussione, questa, tipica del Brasile e della bossanova. A termine di “X 38”, così, il grado successivo è stato inevitabilmente quello di riprendere un brano, che trovo bellissimo, a nome del brasiliano Egberto Gismonti. La domanda, a questo punto, diventa: come sono arrivato a “X 38”? Ma è una lunga storia…
Negli anni ’80 ha creato il “Davide Santorsola trio”, una dimensione sicuramente particolare che soprattutto nel jazz comporta una certa qual fusione di personalità artistiche. Come si riesce a mantenere e coltivare una propria identità così netta?
Con molte prove, un profondo senso reciproco di stima e di amicizia e la volontà di condividere e portare a buon fine un comune progetto con il massimo impegno e la piena sincerità.
In “STAINLESS” ha svelato come ci siano molte citazioni a suoi colleghi come Evans o Mendoza che spesso ricorrono nei pezzi e che l’ascoltatore potrà subito cercare di individuare. Giocare in questo modo con tali riferimenti può essere divertente non solo per chi comprerà il disco, ma in primis anche per lei che lo ha realizzato.
Certo, è così. È un po’ come lasciare delle tracce per farsi riconoscere, pur divertendosi al contempo nel disperderle, per complicare l’indagine. Roba per i risolutori più abili, insomma.
Ha avuto un grande riscontro di pubblico e critica in Giappone, un Paese che ci appare molto lontano dal contesto jazz in cui lei esercita. Eppure ha suonato in due club come il Fukuoka Blue Note ed il Nagoya Blue Note, due templi di questo genere e da lì sono partite molte altre iniziative di successo che l’hanno coinvolta in terra nipponica. Poi torna in Italia e si dedica all’insegnamento al conservatorio statale di Cosenza: come riesce a coniugare questi due aspetti della sua vita? E’ sempre facile, naturale riuscire a declinarsi in queste diverse sfaccettature del suo lavoro o talvolta incontra delle difficoltà?
Fare il musicista di jazz non è fare una vita molto semplice, ma è anche vero che è meraviglioso vivere facendo ciò che sia ama. Io amo profondamente questa musica e non c’è per me poi molta differenza tra il suonarla e il parlarne didatticamente a lezione. Amo ambedue gli aspetti e se si presentano delle difficoltà, la gratificazione che ricevo per quello che faccio supera di gran lunga il loro pur gravoso peso.
Lei ha cominciato a suonare l’organo della sua chiesa in Puglia ed è arrivato fino in Giappone, passando da collaborazioni con personaggi del calibro di Phil Woods e Lee Konitz. Cosa penserebbe quel bambino che dirigeva il coro parrocchiale dell’uomo ed artista che oggi lei è?
Immagino che da grande vorrebbe essere come lui…