Che siano passati anni e anni da quel “L’uomo col megafono” è innegabile. Che Daniele Silvestri si avvicini anche ai cinquant’anni è un altro dato di fatto. E forse queste sono le chiavi di lettura più chiare da cui partire per spiegare, capire e ascoltare “Acrobati“, l’ultima fatica solista del cantautore romano. Il nuovo disco è uscito il 26 febbraio e contiene 18 nuovi brani con partecipazioni di vari artisti, tra i quali Caparezza, Diodato e Diego Mancino ed è entrato direttamente al primo posto della classifica FIMI del 4 marzo 2016 (prima volta per lui).
Il disco, l’ottavo in studio, annunciato il novembre scorso tramite Facebook, dista ben cinque anni dal precedente “S.C.O.T.C.H.“, e già lì si notava un Silvestri “diverso” dal solito: meno scanzonato, più riflessivo, con qualche punta di divertimento, spesso sconfortato ma mai arreso. Dopo 5 anni la situazione di fondo non è cambiata per nulla: c’è una tristezza di fondo che permea tutte le canzoni, che a volte si trasforma in rabbia, altre volte in sagace ironia. Ma è come se ormai una certa scanzonatezza dei primi tempi sia scomparsa e abbia lasciato il posto ad una lucida satira, come dire che ormai non è più tempo di scherzare troppo, visti i tempi che corrono.
D’altrone il disco è stato descritto da Silvestri come un disco atto a “raccontare storie che portassero l’ascoltatore il più possibile altrove”, quindi come un lavoro “più poetico che politico”, ed è stato accolto in maniera entusiasta dalla critica, che lo ha definito “il miglior lavoro che il cantautore romano abbia mai realizzato. E se non è il migliore è certamente il più ricco, convincente, completo dei suoi album, quello che lo dipinge nella maniera più precisa e sicura, mettendo insieme tutte le sue passioni, i suoi amori, vizi e virtù, le tensioni ideali e quelle del cuore.” Parole di Ernesto Assante, non certo l’ultimo arrivato nel mondo musicale.
Ma di che parla questo disco? Di tante cose, e tutte più o meno importanti. Proviamo ad esaminarlo con metodo e con calma. Il disco comincia con “La mia casa“, canzone introdotta da un riff di chitarra che troveremo lungo tutta la traccia e che parla di quanto ormai questo tempo ci renda cosmopoliti senza però dimenticare le proprie radici, nel caso del cantante quelle di Roma, la città dei gladiatori e delle fontanine per strada: il secondo brano è “Quali alibi“, singolo scelto per la promozione del disco e che ha lanciato alle stelle questo album con il suo affondo verso la politica di oggi e la morale di chi perdona tutto in nome del proprio tornaconto personale. Subito dopo troviamo “Acrobati“, la title-track, una vera e propria poesia in musica in cui si inneggia al disobbedire alla gravità e a rischiare di cadere per non sentirsi più “acrobati” di questa vita ma semplici viaggiatori che guardano da un finestrino il mondo che scorre ai loro piedi.
Il disco riprende ritmo con “Pochi giorni“, canzone che vede la partecipazione di Diodato e che con un ritmo funky parla di libertà e di fiducia nella coppia con un retrogusto alla Rino Gaetano sia nelle atmosfere musicali che nel testo. Il basso di Roberto dell’Era (Afterhours) disegna i frammenti di vita alcolica di “Un altro bicchiere“, pezzo sull’alcolismo e su come l’alcol serva semplicemente a dimenticare momentaneamente i dispiaceri della vita, almeno fino alla prossima mattina, magari inserendosi ne “La mia routine“, un meccanismo perfetto e ripetitivo che permette di vivere tranquilli e che illude di non essere prigionieri di un ingranaggio perverso.
“Così vicina” è una canzone d’amore… o almeno una specie, come si evince dal testo (“Te lo ricordi quanto tempo, quanto tempo/Sarei rimasto sveglio/Senza stancarti mai/E invece/Sarebbe stato meglio/Che era così vicina”), che dura pochissimo col suo jazz e lascia lo spazio allo swing da crooner di “La verità“, canzone scomoda che porta a riflettere sulle proprie azioni e su quanto siano utili per conquistare una donna o far passare lentamente un’altra giornata. La “trilogia del buonumore” si chiude con “Pensieri“, una canzone sulla separazione di una coppia (“È stupido sapere esattamente cosa dire/E non dirlo mai/Guardarti mentre pieghi i tuoi vestiti prima di partire/E non sapere se ritornerai“).
“Monolocale” è un pezzo che fa un po’ storia a se stante, il racconto di una figlia al funerale del padre che indaga nel subsconcio della sua vita e ritaglia uno squarcio di vita apocalittico e sconsolato, come faceva in maniera diverso “Pino (fratello di Paolo)” di tanti anni fa. “La guerra del sale” è invece una bella canzone politica di lotta che trova in Caparezza il suo contraltare naturale (riuscendo anche a fare il verso anche al suo successo sanremese “Salirò”). “A dispetto dei pronostici” invece è un brano che parla dell’orrore della lotta armata della povera gente e di come esso influenzi la mente di chi la combatte da un lato o da un altro (“è brutale, le assicuro/percepire nello sguardo di un ragazzo/l’odio puro/per di più diretto a me“) con un bellissimo strumentale finale.
Con “Come se” si parla sempre di amore e di una storia che si vorrebbe portare all’inizio per ripartire insieme, mentre in “L’orologio” (canzone che vede la partecipazione di Diego Mancino) un ricordo di un oggetto (l’orologio paterno) fa partire un flusso di memoria come la madeleine di Proust. “Bio-Boogie” porta con sè la napoletanità dei Funky Pushertz e prende in giro una tendenza ormai diffusissima, quella del biologico a tutto i costi, anche quando non è sincero e costa decisamente troppo.
“Tuttosport” prende in giro la tendenza italica di guardare tutti gli sport possibili e immaginabili in modo curioso, prima recitando il testo e poi cantandolo, una sorta di esperimento sonoro di un minuto scarso: subito dopo ritroviamo Roberto dell’Era in “Spengo la luce“, dove la chitarra stoppata illumina la quotidianità di una persona che non riesce a dormire per i troppi pensieri e che vede la persona amata affianco nel letto con lei quasi come un’estranea. L’album si conclude con “Alla fine“, brano sospeso e sognante come la chitarra che suona per tutto il pezzo e come la voce di Silvestri che sembra quasi dire con sofferenza le parole che chiudono l’intero disco.
“Acrobati” è un disco particolare e l’ideale prosecuzione di “S.C.O.T.C.H.” sia dal punto di vista musicale che dal punto di vista lirico, anzi sarebbe meglio parlare di evoluzione in questo caso. Silvestri esplora ancora di più dentro di sè e dentro le tematiche della quotidianità con un piglio molto più poetico e molto meno politico, recependo a volte la lezione di Montale a volte quella di Palazzeschi, ma sempre filtrando il tutto attraverso i suoi occhi e la sua visione del mondo. Ci sono ormai solo pochi accenni alla spensieratezza dei primi tempi (penso a brani come “L’Y10 bordeaux” o “Le cose in comune“, i primi che mi vengono in mente) che ha lasciato il posto ad una lettura meno ironica e più dissacratoria del mondo in cui viviamo. L’ultima fatica musicale di Daniele Silvestri è un gran bel disco, ma è davvero cupo e getta non una luce ma un’ombra sul presente, mostrando col dito un oggi di cui molti di noi non sono consapevoli o volontariamente non vedono. Non discuto il messaggio, assolutamente condivisibile, ma a questo disco un goccio in più di leggerezza avrebbe secondo me notevolmente giovato.