Bruno Mars: “Unorthodox Jukebox”. La recensione

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Era uno dei dischi più attesi del 2012 e verso la fine di Dicembre è comparso sugli scaffali dei negozi musicali e negli stores digitali. Parliamo di “Unorthodox Jukebox“, il disco di Bruno Mars.

Il 27 enne piccolo genio musicale riccio di Honolulu (Peter Gene Hernandez il suo vero nome) confeziona un gioiellino in chiave pop, dimostrando di meritare gli elogi che già erano fioccati dopo gli album precedenti e dopo la pubblicazione di singoli come “Grenade“, “The lazy song“, “Marry you” e “Just the way you are“.

Il disco parte non benissimo, per la verità, con “Young girls“, un pezzo immerso nelle atmosfere anni ’50 rivisitate che non colpisce molto per l’ascolto ma si riprende subito dopo con “Locking out of heaven“, pezzo scelto come singolo promozionale del disco e che puzza di Police lontano un miglio ma che mostra la voglia di Bruno di rischiare paragoni scomodi. Subito dopo ci troviamo nell’Africa di “Gorilla” (lo stesso che troviamo in copertina ad armeggiare con un jukebox) che sa di anni ’80 e che entra subito in testa con il suo ritornello con tanto di coretti.

Bruno Mars - "Unorthodox jukebox" - Artwork
Bruno Mars – “Unorthodox jukebox” – Artwork

Dagli anni ’80 passiamo agli anni ’70 di “Treasure“, brano assolutamente funky e che invoglia a ballare e a dimenarsi per poi trovarci nelle atmosfere sognanti guidate dallo slap di basso di “Moonshine” e che richiamano alcune ballad di Michael Jackson: si vede che Brunello ha appreso bene la lezione del Re del Pop, tanto bene da allietarci subito dopo con una classica ballad voce-pianoforte come “When I was your man“. Il disco si “riprende” con il ritmo di “Natalie“, uscita dritta dritta da un film di gangsters anni ’30 e che ricorda molto lo stile di altri cantanti di colore americani come Ne-Yo.

Bruno Mars si ricorda per un attimo delle sue origini caraibiche con “Show me“, pezzo reggae all’odore di spiagge, di sole, di drink alla frutta e di strumenti ricavati da una conchiglia. Ma è solo un attimo, perché con “Money make her smile” ci troviamo già di nuovo nel territorio del pop più puro con un pezzo che non colpisce ma affascina per la sua struttura ritmica e che richiama vagamente ad alcune canzoni dei Genesis del secondo periodo. Il disco si chiude con “If I knew“, brano che sembra direttamente uscito dagli anni ’40 con le orchestrine che suonavano questi lenti da ballare abbracciati stretti come con i pezzi di Otis Redding.

Il disco di Bruno Mars è un disco interessante ed intelligente, che pesca da vari repertori a cui il cantante attinge in maniera quasi naturale e dai quali poi ripropone ogni volta quella che è la sua versione di quel genere, scomodando di volta in volta paragoni con colossi come Police, Otis Redding e Michael Jackson. Ma lui non impallidisce al confronto, anzi, evita la trappola del già sentito e dimostra che non serve copiare quando si ha qualcosa nuovo e di interessante da proporre agli altri. Promosso a pieni voti.

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