Bob Dylan: “Tempest”. La recensione

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Nato sotto il segno dei gemelli, 50 anni di carriera ufficiale, 35 album studio pubblicati, varie nomination ai Grammy Awards per i precedenti lavori, introdotto tra le icone della Rock’n’Roll of Fame, una Laurea Honoris Causa in Musica conferitagli dalla Princeton University del New Jersey, Premio Pulitzer del 2008, insignito quest’anno dal Presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama con la medaglia al valor civile per aver dedicato la vita (e la produzione musicale) alla lotta al razzismo rivendicando i diritti civili. Robert Allen Zimmerman, classe 1941, ha pubblicato il suo trentacinquesimo album studio a distanza di 50 anni dalla prima pubblicazione ufficiale, che vide il suo battesimo con l’album “Bob Dylan” (1962): il titolo è un simbolo entrato di dirtto nella cultura e nella musica mondiale. E torna nel 2012, stravolge il mercato discografico,  mentre prepara il tour mondiale che lo porterà in giro per promuovere il suo ultimo lavoro. Il Signor Dylan è stato capace di regalare ai fan e al pubblico un disco revival ma non scontato: il blues, il folk e le scale rock si alternano e susseguono durante l’ascolto del cd ed accompagnano l’ascoltatore in un viaggio immaginario che dura 10 brani. E rappresenta un punto di rottura con le attuali politiche commericiali delle case discografiche – il perchè risiede nell’essenza stessa di Bob Dylan: qualsiasi esperimento è diventato la bussola per buona parte dei cantautori e gruppi musicali che il panorama musicale ha avuto dagli anni ’70 ad oggi.

Bob Dylan – Tempest – Artwork

Arriva sul mercato discografico oggi, 11 Settembre 2012, pubblicato per l’etichetta Columbia Records e prodotto dallo stesso Bob Dylan; registrato ai Groove Masters Studios a Santa Monica in California, “Tempest” è un album che affascina anche l’ascoltatore più distratto proprio per le sonorità che lo compongono. Non è proprio usuale trovarsi nella propria camera, o in auto, ed ascoltare partiture di pezzi che suonavano nei giradischi degli anni ’40 – il blues, il folk, il country, il rock si fondono con la perfetta alchimia che da sempre accompagna Dylan e la sua band: Tony Garnier al basso, George G. Receli alla batteria, Donnie Herron chitarra-violino-mandolino-banjo, Charlie Sexton e Stu Kimbal alla chitarra creano fraseggi e giri armonici che si imprimono nella mente già al primo ascolto uniti al nichilismo sano che si apprezza nei testi. Dylan possiede quel magnetismo unico nel suo genere e lo indirizza verso l’ascoltatore ed anche le parole più crude sembrano sortire un’effetto a cascata – dalla rabbia alla consapevolezza alla cruda verità. Mischia storie comuni con ritmi ad effetto, l’alternanza tra testo e musica rende ancor più chiare le immagini e la semplicità risiede nelle partiture, nella musica.

E così, ecco “Duquesne Whistle” primo singolo che anticipa l’album, già in rotazione musicale con tanto di videoclip ufficiale pubblicato, una ballata di 6 minuti circa trascinante e coinvolgente dalle sonorità inusuali: la traccia impressa in un vinile risuona nel giradischi (un richiamo all’atmosfera da sale da ballo o saloon), il resto lo completano la voce rauca e a tratti metallica di Dylan, il giro di chitarra ed il basso. Un testo crudo accompagna l’ascoltatore nel racconto e le immagini prendono forma nella mente: nulla di ciò che era ha valore nel presente; quale miglior modo se non usare partiture “obsolete”.

“Soon After Midnight” e le sue sonorità country anticipano il capolavoro blues di “Norrow Way”. La fisarmonica ed il giro di chitarra sono rabbiosi, così come il testo: la voce penetrante segnata dagli anni si erge come scudo e come attacco ai nuovi valori di avidità, corruzione, tradimento che prendono piede incontrastati. La voce del padrone che incude autorevolezza.

Il folk di “Long and Wasted Years” ed il pop rock di “Pay in Blood” sono una un nostalgico racconto per quello che è stato, l’altra una fotografia dell’attuale società mentre torna il Bob Dylan menestrello: le parole le vive, non le recita – e si avverte! Chiude il giro “Scarlet Town” una ballata struggente e malinconica con il banjo in risalto mentre il menestrello racconta ad alcuni amici incontrati per caso una verità.

‘Early Roman Kings’ è quel blues che ti lascia senza fiato, quello che hanno partorito i “negri” del Delat del Mississipi. Un esperimento che solo Bob Dylan poteva mettere a frutto, un algoritmo che solo lui riesce a cucire sui suoi testi, forte anche del afatto che proviene da quella tradizione. E quell’inconfondibile armonica.

Il sermone di “Tin Angel” fa da preludio alla ballata più lunga dell’album (13:55) che da il nome all’omonimo album: “Tempest” racconta della storia del Titanic e del suo affondamento e Dylan gioca proprio su questo parallelismo per dipingere un quadro che ormai ha preso forma: crea un ponte tra il destino della società odierna e quello che interessò l’inabissarsi della nave più famosa al mondo, consapevole del fatto che una canzone ha il compito di raccontare la verità.

L’ultima ballata “Roll On John” è dedicata all’amico scomparso John Lennon: racconta gli ultimi istanti di vita dell’amico, gli racconta di come sarà il suo ultimo respiro e di come è malinconico veder morire un fratello.

Tutti hanno diritto almeno una volta nella vita di ascoltare un disco di Bob Dylan e “Tempest” sicuramente è uno tra questi: così come 50 anni fa Dylan ha aperto di nuovo una strada, un richiamo alle vecchie sonorità mai scontate. E forse in parecchi lo seguiranno, o forse no; Dylan racconta di come è proprio nei momenti di difficoltà che l’uomo deve tirar fuori il meglio di sé ed uscire da questo limbo apparente. E quale miglior modo se non gettarsi al largo nel futuro non perdendo la bussola del passato.

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1 COMMENT

  1. Grazie per questa recensione. Davvero ben scritta. Ho 20 anni e mi sono avvicinato a Bob proprio con questo album. Da comprare e ascoltarselo da soli e in pace. Lascia il segno.

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