I Black Label Society infiammano il Rock in Roma

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Una band: Black Label Society. Un uomo: Zakk Wylde. Una città: Roma. Adesso mescolate per bene e bevete tutto d’un fiato! Perché è così che va assaporato un concerto dei Black Label. Ogni canzone mandata giù per la gola, come uno shot che ti scorre lungo l’esofago e ti colpisce dritto in petto.

Sin dall’anno della sua fondazione, il 1998, la band ha infiammato la scena metal mondiale, raccogliendo attorno a sé sempre più proseliti (noti come berserkers). Chissà se Zakk, all’anagrafe Jeffrey Philip Wielandt, si sarebbe mai immaginato tutto questo. Ne ha percorsi di chilometri e cambiato di chitarre da quando, a 19 anni, ha inviato una demo di 5 brani, mentre lavorava in una stazione di benzina, ad un gruppo in cerca di chitarrista. Il manager di quel gruppo, neanche una settimana dopo, l’ha convocato immediatamente. Il manager si chiamava Sharon e il gruppo con cui avrebbe iniziato una lunga collaborazione era quello di un certo Ozzy Osbourne.

Ore 20.30. Il pubblico è in trepidante attesa e la cornice dell’Ippodromo delle Capannelle suggella un quadro perfetto di vero, puro e semplice Rock ‘n Roll. Non avete la possibilità di vedere un solo impostore in giro. Ogni singolo spettatore, per quanto non siano numerosissimi come quelli che hanno invaso l’olimpico il giorno prima, è lì per respirare l’energia sprigionata da Zakk Wylde e i suoi ragazzi. Non si trova per caso, non segue un fenomeno di costume, non bada alla vendita di dischi. E i Black Label Society ne hanno venduti.
L’opening act dell’evento è affidato agli Archer, una band metal californiana, i quali non hanno deluso affatto. Avevano sulle spalle il peso di reggere e riscaldare un pubblico di berskerkers, e hanno retto bene.
Ore 22.00. Un telo nero con sopra il logo dei BLS cala sul palco. Il pubblico si infiamma. Dopo un pò di ulteriore attesa, una dolce melodia al pianoforte comincia a diffondersi. Quando il telo cade giù, lo spettacolo delle luci misto alle note di “Crazy Horse“, prima traccia dell’ultimo album del 2010, “Order of the Black”, si abbatte come un onda anomala sul pubblico!
Zakk Wylde, al centro della scena, indossa un copricapo nativo americano. Proprio come uno sciamano, sembra invocare gli spiriti guida su di sè. Ed è come se lo spirito di un lupo lo stesse conducendo lungo il cammino: solitario, combattivo, ma che non si dimentica mai delle sue responsabilità verso il branco.
Si segue la scia di potenza e allora via con “Funeral Bell“! Vecchi classici, come “Bleed for me” e “Demise of Sanity“, e nuovi brani, come “Overlord” e “Parade of the Dead“, si alternano senza tregua. Ognuno con la sua carica, con la sua botta di adrenalina rilasciata dai colpi di batteria di Mike Froedge, in tour con i BLS dal
2 maggio, dal basso martellante di JD, dalla chitarra di Nick Catanese, ma soprattutto dalla serie di Gibson Les Paul che Zakk Wilde fa urlare sul palco. Tutte rigorosamente personalizzate. Dalla Gibson SG alla Polka Dot V. Zakk ha anche esibito diverse Epiphone Les Paul, tra cui quella uscita in occasione di Halloween 2009, a forma di lapide e con una croce sulla paletta. Ovviamente…tutte con sopra stampato il suo famoso marchio, dei centri concentrici bianchi e neri o nero e arancione, i quali, insieme alle note sprigionate, hanno un effetto ipnotico su chi ha la fortuna di ammirarli dal vivo.

Andando avanti lungo la scaletta, Zakk si accomoda al pianoforte perché è arrivato il momento di una ballad, “Darkest Days“. Per quanto si possa essere duri e cazzuti… tutti abbiamo bisogno di una ballad.
Anche se, il momento dolce e romantico, dura giusto il tempo di una canzone. Solo per questo live, perché ricordiamo i vari unplugged della band e un intero album acustico all’attivo. Infatti, come un schiaffo che cerca di svegliarti e scuoterti dopo le lacrime, arriva Fire It Up, cui segue un lungo assolo di Zakk Wylde. Le note della sua chitarra, il suo overdrive, il wah-wah che nessuno al mondo usa come lui, si abbattono sul pubblico come una scarica di M-16 in pieno petto. E percorre tutto il palco, in solitudine, per puntare e colpire ogni singolo spettatore, senza lasciare prigionieri. Il resto della banda lo raggiunge sul palco per accompagnarlo in “Godspeed Hell Bound”, dell’ultimo album, e “Blessed Hellride“, title track dello spettacolare album del 2003. Tutto d’un fiato, fino alla fine, senza sosta, senza la classica pausa per il bis, vengono mandate giù “Suicide Messiah“, “Concrete Jungle” e “Stillborn“, con la stessa intensità dei botti finali nei fuochi d’artificio. Come un gruppo di amici che bevono allo stesso pub da una vita, si abbracciano tra di loro per un’ennesima missione compiuta e salutano il pubblico per averli aiutati a vincere questa battaglia.
Riesco a raggiungere il backstage, purtroppo non ad incontrare Zakk, sarà esausto. Ma scambio quattro chiacchiere con Mike e JD, bassista storico nonché produttore del loro ultimo album. Dall’ultima volta che son venuti in Italia, il 17 marzo a Milano (sold out), son passati tanti concerti, tra festival ed esclusivi, solo tre negli ultimi tre giorni, compreso questo. Diciamo che… la stanchezza li ha colpiti di striscio. Per questa sera hanno solo voglia di divertirsi, bere e godersela senza pensare alle prossime date, il 6 in Germania, l’8 in Norvegia e poi… si vola in Sud America.
Come se coloro che ho di fronte non sono rispettivamente batteria e basso di uno dei più grandi gruppi heavy metal sulla scena contemporanea, ma amici di vecchia data, parliamo dei più svariati argomenti, chi stimano attualmente, chi no, che speranze hanno per il futuro del rock. Zakk ha collaborato con Slash (sullo stesso palco che hanno affrontato i BLS stasera, il prossimo 29 luglio) e Mike mi dice che ogni volta che li vede suonare insieme…è come vedere due grandi a confronto, una sfida senza vincitori ne vinti. E’ naturale parlare anche di Axl. Un solo commento, credo, possa bastare per rendere l’idea: “Quanto ci ha messo per partorire Chinese Democracy?” Parere opposto sull’attuale turnista, nonché voce del prossimo disco di Slash, Miles Kennedy. “E’ davvero in gamba, sia per qualità vocale, che per presenza scenica.
Ci salutiamo, quindi, con un’ultima sorsata di Jack Daniels e una considerazione: a quanto pare… l’heavy Metal non è morto!

 

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