Biffy Clyro: “Ellipsis”. La recensione

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Per un lungo periodo di tempo, i Biffy Clyro (ovvero Simon Neil alla chitarra e voce, James Johnston al basso e Ben Johnston alla batteria) sono stati una delle band britanniche più strane e più brave, un gruppo duro e irsuto che riusciva a suonare un rock senza compromessi mescolando armonie in tre parti con una buona dose di post-hardcore.

I tre, da poco usciti nuovamente alla ribalta grazie al loro settimo album in studio, “Ellipsis“, hanno dichiarato che questo disco fa parte di una trilogia di album: il singolo promozionale “Wolves of winter” prometteva bene, mostrando il tipo di suono a cui ci hanno abituato i Clyro fin dal loro esordio nel 2002 con “Blackened sky”, anche se tra i riff di chitarra e il ritmo post-rock non trovava spazio la distorsione che da sempre è stata un loro marchio di fabbrica.

Alla fine, ascoltando tutto il disco, posso dire che il gruppo, dopo ormai ventun anni di onorata carriera, non ha del tutto perso lo spirito e la voglia di fare musica (e una canzone come “Small wishes” lo dimostra) ma il disco manca di qualcosa: sembra essere assente una certa dose di inventiva e di voglia di scoperta. Non sembra di sentire un disco dei Biffy Clyro, ma di sentire un disco di una qualunque band post-rock.

Eppure l’inizio non era stato male: come detto prima, “Wolves of winter” faceva ben presagire per il disco (che non è neanche tanto lungo, considerato che sono meno di 40 minuti per undici canzoni, almeno nella versione standard) anche con il cambio di produzione, con il gruppo che ha abbandonato il suo collaboratore di lunga data Garth Richardson per scegliere Rich Costey (Franz Ferdinand, Ash, The Mars Volta, Muse, My Chemical Romance, Supergrass, Philip Glass, Audioslave, e Rage Against the Machine, giusto per citare qualche nome).

Le cose si erano messe sotto una luce un po’ diversa quando il gruppo, in un’intervista alla testata NME, aveva dichiarato di essersi ispirata a gruppi come A$AP Rocky, Kanye West e Aesop Rock per la stesura di questo disco e che aveva il desiderio di far sì che le canzoni suonassero il più incasinate possibile. Questo non aveva fatto altro che allarmare ulteriormente il crescente numero dei fans della band che erano preoccupati (per non dire terrorizzati) da questo, considerando che avevano percepito da tempo una certa deriva mainstream del gruppo. “Ellipsis”, purtroppo per loro, ha confermato le loro paure. E le cose hanno assunto una piega quasi grottesca quando la band ha pubblicato come risposta alle critiche piovute su questo disco un messaggio del tipo “Hey, rimanete con noi. Anche noi siamo sorpresi da come questo disco suoni strano.” Se siete sorpresi voi, figuratevi i vostri fan.

Parliamo ora un attimo nello specifico del disco: direi che “Ellipsis” si può dividere in due grossi tronconi, quello delle canzoni che ti aspetti e quello delle canzoni che non ti aspetti. Quello delle canzoni che ti aspetti può annoverare tra le sue fila “Howl“, “On a bang“, “Small wishes” e “Friends and enemies“, dove si respira (in alcuni casi parzialmente) quello stile che ha permesso alla band di diventare famosa. Dall’altra parte ci sono invece che le canzoni che non ti aspetti. Ma qui bisogna fare dei distinguo.

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Biffy Clyro – “Ellipsis” – Cover

Prendiamo per esempio due pezzi come “Wolves of winter” e “Flammable“: sono pezzi molto potenti e dall’anima profondamente rock ma non sono brani che rimangono in testa, sembrano semplicemente funzionali al disco e allo scopo e poco altro. Neanche la linea di basso di James Johnston, marchio di fabbrica del gruppo, riesce ad emergere, seppellita com’è nel missaggio. Ascoltando un brano come “Animal style“, invece, viene fuori il produttore Costey e la sua lunga carriera con i Muse, dato che suona uscito dalla mente e dalla chitarra di Bellamy: ci sono poi alcune pause nel ritmo del disco come “Re-arrange” e “Medicine” e pezzi senza infamia e senza lode come “Herex” (brano dannatamente pop-punk) o “People“, brano conclusivo del disco che vedrei bene in qualche colonna sonora di qualche telefilm americano.

Parliamoci chiaro, ormai i Biffy Clyro non sono più un gruppo da scoprire, vista la lunga militanza e il successo che hanno ottenuto in questi anni. E’ anche prevedibile che arrivati al settimo disco comincino a suonare in maniera più mainstream e meno underground ma quello che non ti aspetti è un radicale cambio di stile: “Ellipsis” sembra puntare ad una nuova direzione musicale per la band ma gli ascoltatori (e a leggere i post sui social anche gli stessi autori) ignorano quale sia. Ci sono ogni tanto delle zattere di salvataggio nel disco (“Small wishes” e “On a bang” su tutte) ma il disco suona come un prodotto di tante altre band e non come un disco dei Biffy Clyro: alla fine il problema è tutto qui. Anche brani melodici come “Re-arrange” e “Medicine” suonano una spanna sotto a pezzi del loro passato come “Machines” e “God and Satan”. Alla fine di tutto il giudizio è molto semplice: è un disco più che sufficiente a patto che non si legga il nome del gruppo che lo ha prodotto, altrimenti si rimane delusi.

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