Thom Yorke si oppone a Spotify, cancellati dunque dalla piattaforma “AMOK” degli Atoms for Peace, “The Eraser” disco solista del 2006 e “Ultraista” di Nigel Godrich. Continua ad essere consultabile, invece, l’intera discografia dei Radiohead tranne “In rainbows” primo album pubblicato dopo aver rescisso il contratto con la EMI. La battaglia ha visto i suoi prodromi (e gli strascichi) tramite il web, ad esser precisi tramite il Twitter ufficiale dei due componenti degli Atoms for Peace, Thom Yorke e Nigel Godrich. Le ragioni? Secondo i due musicisti/produttori queste nuove piattaforme streaming sono utili per gli artisti e le band che hanno una carriera già lanciata nell’olimpo dei big, mentre vengono penalizzate le band emergenti.
Attualmente Spotify detiene un bacino che conta 24 milioni di utenti attivi, di cui 6 milioni pagano un canone di attivazione di 5 dollari/mensili base. L’accusa arriva da Nigel Godrich nella giornata di Domenica 14 Luglio, un attacco che conta ben 16 tweet:
Niente da fare, non c’è strada. Siamo fuori da Spotify. Non possiamo fare altrimenti. Piccola forma di ribellione; qualcuno potrà dire qualcosa. Non è una buona cosa per la nuova musica;la ragione è che gli artisti emergenti non vengono pagati il giusto. E’ un’equazione che non funMeziona; L’industria musicale è controllata dalle solite persone…se non proviamo a fare qualcosa per gli artisti emergenti…; non ha nulla a che fare con il numero delle visualizzazioni. E’ una protesta circa il modello che l’estabilishment ha adottato…; comunque le nuove etichette e gli artisti emergenti non possono competere con questo modello; oggi per comporre musica basta un computer, ma in altre circostanze servono musicisti e tecnici. E la costa costa parecchio; pensate che se nel 1973 ci fosse stata questo tipo di politica probabilmente i Pink Floyd non avrebbero mai potuto incidere “Dark Side (of the Moon)”
Mentre prosegue il botta e risposta tramite il Twitter ufficiale di Goldrich, gli fa eco Thom Yorke:
Non equivochiamo. I nuovi artisti che scoprite su Spotify non vengono pagati.
In pratica l’accusa è rivolta al vecchio sistema che cerca sempre più di tenere nella morsa i vecchi cataloghi così da intascare le royalties di pezzi di musica leggendaria (basti pensare all’operazione che ha visto proprio i Pink Floyd protagonisti su Spotify) mentre per gli emergenti non c’è (quasi) via d’uscita. Nel frattempo arriva la risposta di un portavoce dell’azienda svedese Spotify:
Siamo impegnati al 100 % a rendere Spotify un servizio musicale il più artist-friendly possibile e discutiamo costantemente con artisti e manager su come poter contribuire a sviluppare le loro carriere
“Nel frattempo”, continua, “al momento sono stati riconosciuti diritti d’autore per 500 milioni di dollari, e la cifra è destinata a salire a 1 miliardo di dollari entro la fine dell’anno. Tutti gli introiti saranno reinvestiti per la ricerca e lo sviluppo di nuovi talenti e contribuire così alla nascita della nuova musica”. Un episodio che farà parlare molto nel prossimo futuro, un ponte tra la vecchia industria discografica e la sempre più marcata necessità degli artisti di liberarsi da qualsivoglia clausola di contratto e rendere così la musica sempre più indipendente