Poets of the Fall: “Ultraviolet”. La recensione

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La prima cosa che bisogna fare, prima di recensire un qualsiasi disco, è sgombrare la mente da qualunque pensiero precedente riguardo la band o il cantante in oggetto: e “Ultraviolet” dei Poets of the Fall non fa eccezione.

I POTF sono un gruppo alternative rock finlandese conosciuti, almeno tra i loro fans (di cui esiste anche una accalorata fan base italiana), per la loro scrittura sonora molto melodiosa e compatta, per le atmosfere rock che sfiorano la qualità cinematografica e per la voce del cantante Marko Saaresto, un unicum nel panorama musicale attuale. “Ultraviolet” rappresenta l’ottavo disco della loro carriera, a distanza di due anni dal precedente “Clearview“, e arriva dopo la pubblicazione dei due singoli “False kings” e “Dancing on broken glass“. E già lì si era intravisto qualcosa di diverso.

Partiamo proprio da “Dancing on broken glass“, la prima canzone del disco: per un momento sembra di essere tornati agli anni Novanta e sembra di avere tra le mani un disco degli U2 o dei Coldplay. Siamo di fronte a una canzone pop efficace, diretta, che rimane in testa, un netto cambio di passo riguardo a quello a cui ci avevano abituati. Se i fans della prima ora possono essere rimasti straniti dalla canzone, temo che la loro sensazione si accrescerà con l’ascolto del disco. Subito dopo arriva “My dark disquiet“, una canzone che suona POTF da ogni nota, grazie alle sue atmosfere cupe e alle sue armonie guidate dal pianoforte ma che suona a metà tra una canzone pop e una rock, con la musica che suona come poco ispirata.

Il terzo brano, “False Kings“, scelto come secondo singolo, mostra, anche grazie a un video molto particolare, quella caratteristica cinematografica di cui vi ho parlato prima: sembra perfetta come colonna sonora per un film di James Bond, orchestrata bene e dal giusto gusto teatrale. “Fools Paradise“, il pezzo successivo, è il primo raggio di sole in questo disco, un misto di malinconia e mistero con la voce di Mirko presente su ogni singola sillaba del brano, una canzone che suona addirittura rischiosa, considerato il contesto in cui si trova, ma che è una delle migliori del disco e ricorda i Poets of the Fall vecchia maniera.

Standstill” è il pezzo acustico del disco e suona come tanti altri loro brani acustici prima di questo, in particolare “Stay”, ma stavolta il suono è più sporco e grezzo e semplice e la voce di Marko si confonde, ogni tanto, con la chitarra, e questo è un male. “The Sweet Escape“… beh, questo è un pezzo “strano” per i POTF. Ho letto in giro che sembra una versione di “Love is a battlefield” di Pat Benatar sotto Xanax. Ma la canzone ha un suo fascino tutto particolare e resta in mente, colpendo l’ascoltatore e stagliandosi sul resto del disco.

Il motivo per cui mi ricorderò molto probabimente in futuro di “Moments before the storm” è che è una delle poche canzoni del disco che ha un riff di chitarra fatto come si deve (e sospetto che dal vivo possa rendere al suo meglio) mentre “In a perfect world” non lascia purtroppo traccia dietro di sè una volta terminato l’ascolto. Questo disco continua a essere un saliscendi di emozioni e valutazioni e “Angel” ne è una ulteriore prova, con una melodia che sembra catapultata dagli anni Ottanta e figlia degli Human League o degli Ultravox. Il disco si conclude con “Choir of cicadas“, brano dominato dall’organo e che suona quasi come un inno che chiude in maniera epica (o almeno ci prova) il disco. La vedo bene come canzone usata in qualche matrimonio (e non scherzo).

Com’è “Ultraviolet“, alla fine? Parliamoci chiaro: io non metto assolutamente in dubbio le capacità dei POTF e non penso che Marko e soci abbiano perso il talento nel giro di due albumi (comprendendo anche il precedente “Clearview” in questa disamina) ma è chiaro che la band sta tentando di capire se si può mutare pelle e se si può passare dall’alternative rock degli esordi a questo nuovo pop-rock che li sta dipingendo come una sorta di nuovi Coldplay con il valore aggiunto di una voce che è degna di essere chiamata tale. Nel disco viene enfatizzata molto la fase orchestrale e si mostra come la band sia capace di aggiungere cose nuove alla sua idea di musica ma, nel complesso, questo disco non riesce a superare la sufficienza. In pratica “Ultraviolet” è il tentativo di una rock band di scrivere un disco pop con delle venature rock al suo interno e qualche elemento prog: i vecchi fan grideranno allo scandalo mentre quelli nuovi e quelli che saranno attirati da questo disco troveranno quello che può piacere loro, soprattutto se amanti del pop. Quello che purtroppo mi rimane è la sensazione di una opportunità persa, di un disco scritto in maniera non eccellente e che non promuove l’immagine della band o riflette le sue canzoni migliori. Il rischio preso era alto e non credo che abbia pagato.

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