Caparezza: “Prisoner 709”. La recensione

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“La prosopagnosia è l’incapacità di riconoscere le facce delle persone e, nei casi più gravi, di distinguere la propria immagine in fotografia. Detta anche cecità per i volti, colpisce il 2% della popolazione e può manifestarsi alla nascita o sopravvenire in seguito a un danno cerebrale (trauma, ictus, malattie degenerative).”

Questa definizione ci serve per introdurre “Prisoner 709“, il nuovo disco di Michele Salvemini in arte Caparezza, il settimo della sua carriera e che dista tre anni dal precedente “Museica“. Ci serve perchè la prosopagnosia è una delle chiavi ricorrenti di questo disco dove Caparezza parla delle gabbie che si è costruito nel corso di questi anni e della sua sensazione di sentirsi imprigionato nel mondo della musica, anche grazie alla scoperta dell’acufene che lo sta tormentando da un paio d’anni: “Dopo 17 anni di dischi e di concerti mi sono sentito un po’ intrappolato in questa vita. Ho voluto raccontare questo stato d’animo. “Prisoner 709” arriva al termine di un periodo molto complicato. Mi sono posto ogni genere di domanda, ho riflettuto sulla mia vita e sulla mia carriera, mi sono chiesto se davvero io sia fatto per fare musica. Il disco è una lunga seduta di autoanalisi, in cui c’è molto più Michele che Caparezza. È un tentativo di fuga dalla prigionia dei ruoli che ci viene imposta. “

Già nel titolo il disco affronta il concetto della prigionia con il gioco di parole 709 che rappresenta una sorta di crisi d’identità che il cantante ha avuto negli anni precedenti. Il numero 7 rappresenta il suo nome Michele, composto da sette lettere, mentre il numero 9 il nome d’arte Caparezza, composto da nove. Lui stesso ha dichiarato anche che per ogni brano si è divertito a trovare delle contrapposizioni tra parole di sette e nove lettere, in modo da riuscire a enfatizzare il significato introspettivo dell’album. Il numero 0, invece, rappresenta la continua scelta fra il 7 e il 9, ed è anche un rimando alla forma circolare di un disco musicale.

Nelle 16 tracce che si snodano all’ascolto si capisce subito che si ha di fronte un disco sicuramente non facile, nel quale i testi vanno ascoltati e riascoltati per poter capire tutte le loro sfumature, come Caparezza ci ha sempre abituato. Ma questo è un disco completamente diverso da “Museica”, qui i pezzi orecchiabili e da trasmettere in radio sono davvero pochi, il suono è claustrofobico, quasi noise, evocando con efficacia l’idea della prigione che vive il cantante da due anni grazie all’acufene che è esploso durante un tour live e che lo ha costretto a mettere in discussione la sua stessa carriera.

Non c’è solo il tema della prigione come evocato in “Prisoner 709“, ma c’è un confronto diretto e duro con se stessi: il disco può essere diviso in due grandi tronconi, da un lato le canzoni che Caparezza canta al suo pubblico e dall’altro le canzoni che Caparezza canta a se stesso. Nel primo gruppo troviamo il duro attacco alle religioni di “Confusianesimo“, il flashback di “Migliora la tua memoria con un click” con la presenza di Max Gazzè, il racconto della prigione dell’acufene con “Larsen“, la critica dell’italiano medio di “L’uomo che premette” e il racconto della scrittura delle canzoni di “Autoipnotica“, così come in “China Town” di “Museica”.

Poi c’è una canzone come “Una chiave“, un lucidissimo brano introspettivo quasi doloroso nel suo svolgersi. Caparezza stesso ha detto che non aveva mai scritto un pezzo così smaccatamente personale, dialogando con il se stesso quand’era piccolo. E questa canzone è proprio l’esempio più lampante e commovente del secondo gruppo di canzoni, dei brani che Michele canta a se stesso più che al suo pubblico, come con “Forever Jung” (una seduta di psicoanalisi in duetto con DMC) o “Prosopagnosia” che vede come ospite la voce inconfondibile di John De Leo o con l’autoironia di “Il testo che avrei voluto scrivere“.

CoveR
Caparezza – “Prisoner 709” – Cover

Ci sono poi delle canzoni che non rientrano in nessuno dei due gruppi e che si pongono come una sorta di mediazione tra le une e le altre come “Ti fa stare bene“, il singolo del disco che vuole mandare un messaggio positivo e controcorrente: non serve fare i duri per stare bene, non bisogna vergognarsi se le cose che ci danno gioia sono cose semplici o infantili, anzi, bisogna portare avanti questo stile di vita, scevro di cattiveria e pregno di amore e spensieratezza. Rientra in questo gruppo anche “La caduta di Atlante“, canzone che mostra l’amore del cantante per i miti greci, la rivolta di “Sogno di potere“, la follia di “Minimoog” e le citazioni a Elon Musk di “L’infinto“. Con “Prosopagno sia!“, la latitanza, l’album si conclude con la pianificazione dell’evasione dalle prigioni in cui Caparezza si è ingabbiato, evasione che può avvenire solo con l’accettazione di sé, dei propri limiti e disagi, come ha detto lo stesso rapper in una recente intervista.

Nella versione CD dal minuto 07:09 fino al minuto 09:07 è presente una sorta di ghost track contenente sibili: è probabile che Caparezza abbia voluto fare provare agli ascoltatori cosa significa soffrire di acufene. Personale fino alla fine, questo disco è davvero ostico da affrontare e da ascoltare, da capire e da leggere, ed è forse il disco dove il rapper si racconta più veementemente e sinceramente. Proprio per questo motivo è un disco duro, difficile, complesso, molto poco “commerciale” ma molto più umano. “Prisoner 709” è un album da ascoltare tante volte per capire le sfaccettature e il lucido racconto di una gabbia fisica che ha rischiato (e sta tutt’ora rischiando) di privarci di uno dei talenti più puri della musica italiana di questi ultimi vent’anni. Per questo (e non solo per questo) complimenti a Salvemini.

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