Elbow: “Little fictions”. La recensione

0
975

La rock band inglese degli Elbow ci aveva abituato nel corso del tempo ad una formula molto personale di rock, ovvero un rock meditativo, drammatico e infarcito di orchestrazioni dai testi leggermente idiosincratici, che li avevano portati nel 2008 a vincere un Mercury Prize con il disco ” The Seldom Seen Kid“. Ora, dopo l’abbandono del gruppo da parte del batterista e cofondatore Richard Jupp avvenuto l’anno scorso, la band inglese composta da Guy Garvey (voce e chitarra), Craig Potter (tasteire e cori), Mark Potter (chitarra e cori) e Pete Turner (basso e cori) ci riprova con “Little fictions“, settimo disco in studio pubblicato dalla Polydor Records e prodotto da Craig Potter.

Il disco è stato preceduto dai singoli “Magnificent (She Says)”, “All Disco” e “Gentle Storm” e vede la collaborazione con la Hallé Orchestra e il suo coro, ed è stato annunciato dal video del singolo “Gentle Storm” che era ispirato alla canzone “Cry” di Godley & Creme e che vedeva al suo interno l’attore inglese Benedict Cumberbatch.

La formula musicale degli Elbow, come detto prima, è molto particolare e non credo che ora come ora possa far guadagnare nuovi fans al gruppo inglese ma la band inglese dimostra di aver intrapreso un cammino deciso con il passare degli anni e di stare cominciando ad analizzare il tempo che passa e l’età adulta che avanza, con un accento particolare sull’amore e sul proteggere quello che abbiamo guadagnato nel corso della nostra vita. Il brano introduttivo e singolo “Magnificent (She Says)” mostra bene questo tipo di percorso (musicale e non) intrapreso, molto introspettivo e particolare, quasi catartico, grazie alle chitarre e agli archi di sottofondo, così come con “Gentle Storm“, canzone dal ritmo e dal video molto particolare, quasi ipnotico.

Con “Trust the Sun” viviamo una sorta di distopia musicale: la canzone parte con una linea ritmica quasi tambureggiante e poco dopo se ne innesta un’altra, molto più melodica e delicata, che si fonde miracolosamente con la precedente: “All Disco” invece è una canzone dove si sentono in continuazione voci in sottofondo quasi spettrali, coperte a malapena dal tappeto musicale, che alla fine esplodono come se le manifestazioni della memoria emergessero e rimodellassero le percezioni del presente. Il disco è un crescendo rossiniano e con l’elegiaca “Head for Supplies” ci avviciniamo ad uno dei momenti più particolari del disco, ovvero “Firebrand & Angel“, quando il gruppo sabota volontariamente la forma canzone per creare un momento barcollante e dissonante che mostra come il gruppo sappia anche suonare, e anche bene, quando l’esigenza lo richiede.

Cover 2
Elbow – “Little fictions” – Cover

K2” è forse il climax di tutto il disco: riprende la distopia musicale precedente ma gli echi della voce di Garvey riverberano e creano un effetto davvero curioso e particolare, dove le parole si disegnano di nuovi significati e prendono diversa importanza, come detti da una folla invece che da una persona, come se a parlarci fosse la memoria. Dopo la dolcezza tempestata dal pianoforte ossessivo di “Montparnasse” troviamo la title-track che sembra quasi uscita da un film horror e che recita alla perfezione il senso del disco: “We protect our little fictions/Like it’s all we are.” (“Proteggiamo le nostre piccole finzioni/come se fossero tutto quello che abbiamo”). L’album si chiude con “Kindling“, canzone che sembra uscita da un disco degli U2 e che conclude degnamente il disco.

Registrato in parte in una villa nella campagna scozzese, “Little fictions” è un disco intriso di malinconia e di gioia allo stesso momento, è un disco dove Garvey, che è un narratore molto talentuoso, mostra come gli Elbow, anche al momento della loro massima esplosione emozionale, siano degli attenti architetti musicali e sappiano dosare bene gli ingredienti per creare una canzone che punti in una precisa direzione. Questo disco cresce lentamente, piano piano si insinua nelle orecchie e che accatasta riff di chitarra elettrica, linee di basso e pattern di batteria tessendoci sopra gli archi della Hallé Orchestra che diventano più di un complemento, se non addirittura lo strumento principale. La voce di Garvey disegna testi che parlano di crescita, di amore, di middle class, di Brexit, di tutto quello che ci capita nel quotidiano e che farà innamorare di nuovo i loro fans. Come detto prima, chi ha sempre trovato noiosi gli Elbow confermerà la sua ipotesi, ma questa è paradossalmente la forza di “Little fictions”: essere quello che si aspetta da lui, non un goccio di più, non un goccio di meno.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

 

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.