Del nuovo album dei Red Hot Chili Peppers si era cominciato a parlare già nel novembre del 2014 quando venne annunciato che Rick Rubin, per la prima volta dopo 23 anni, non avrebbe prodotto il prossimo disco della band. La notizia aveva scosso un pochino i fans della rock band americana che si chiedevano che direzione avrebbe preso il nuovo corso di Flea e soci.
Le registrazioni del nuovo disco sono però state posticipate al 2015 dopo che proprio Flea si era fratturato un braccio in un incidente sciistico. La prima notizia è stata quella del nuovo produttore del disco, ovvero il musicista Danger Mouse. La seconda notizia, data a fine anno, è stata quella di una serie di concerti in Europa per l’estate 2016, in occasione di alcuni festival europei come il Rock am Ring e il Rock im Park in Germania, il Pinkpop Festival in Olanda, il Novarock in Austria, l’Open’er Festival in Polonia e il Roskilde Festival in Danimarca, insieme alla partecipazione al Fuji Rock Festival in Giappone.
Finalmente il 5 maggio 2016 viene lanciato in radio “Dark necessities“, il singolo che anticipa l’uscita del nuovo album “The getaway” che viene pubblicato nella fine di giugno e che rappresenta l’undicesimo album in studio del gruppo musicale statunitense, a distanza di cinque anni dal precedente “I’m with You” e che vede per la seconda volta il chitarrista Josh Klinghoffer sostituire John Frusciante. “Dark necessities” è entrasto nella Top 10 della classifica Alternative Songs della rivista Billboard, rendendo i Red Hot Chili Peppers la band musicale con il più alto numero di singoli arrivati in tale classifica, ovvero 25, seguiti dagli U2 con 23 singoli.
Il nuovo disco di Anthony Kiedis, Josh Klinghoffer, Flea e Chad Smith è composto da 13 canzoni per poco meno di 54 minuti di musica e si apre con la title-track e con il singolo “Dark necessities” che ben illustrano quale sia il nuovo corso musicale dei Red Hot, molto più melodico e variegato, molto lontano dal rock energico a cui ci hanno abituato nel corso degli anni. Non fa eccezione la traccia successiva, “We turn red“, un funk rock stoppato il giusto e incalzante ma che sembra mancare dello spunto vincente.
Con “The longest wave” entriamo nella melodia pura e in una sorta di malinconia che sembra pervadere buona parte del disco. Capiamoci, era maliconico ai tempi anche un pezzo come “My friend” ma aveva dalla sua una solida struttura rock che ne faceva un brano encomiabile e iconico: qui il rock ha lasciato spazio ai cori, alla ampiezza del suono, alla pluralità degli strumenti creando qualcosa di nuovo sicuramente ma di altrettanto strano (ascoltare “Goodbye angels” per credere o “Sick love” che vede al pianoforte nientemeno che Sir Elton John).
“Go robot” è il secondo singolo scelto per la promozione del disco ed è un brano carino e accattivante che sicuramente in radio fa presa, così come le atmosfere estive di “Feasting on the flowers” che nei cori ricordano quasi i Beach Boys grazie anche all’uso dell’organo hammond: per trovare invece una scintilla dell’energia degli esordi bisogna aspettare “Detroit“, traccia insolente e cattiva il giusto, e “This Ticonderoga“, brano duro e rock che si apre con riff di chitarra e voce effettata per avere il suo momento hip hop e tornare così al crossover che ha sempre contraddistinto i RHCP.
“Encore” è invece la traccia orchestrale del disco, con tanto di violini, violoncello e strumenti ad arco e a mio giudizio è il pezzo migliore del disco, dove tutti i nuovi tentativi dei RHCP trovano finalmente un senso compiuto per una canzone davvero notevole che credo piacerà a tutti: su questa falsariga prosegue “The hunter” con la sua chitarra slide che sembra animare un bosco buio di fantasmi e di fiabe da non raccontare prima di andare a dormire. Il disco si conclude con “Dreams of a samurai“, il pezzo più lungo del disco anche grazie alla intro strumentale e che mescola con estrema disinvoltura pianoforte, basso, sintetizzatori, mellotron e la voce di Beverly Chitwood.
Leggendo le varie recensioni che si trovano in rete su “The Getaway” moltissimi dicono la stessa cosa, ovvero che pur non essendo un album che suona come un disco del periodo d’oro dei Red Hot Chili Peppers, è un tentativo perfetto per ricordare com’erano. Questo forse può andare bene per i fans nostalgici della prima ora e per gli amanti del crossover e di un certo mix tra funk, rock e pop, non certo per una persona che ha per la prima volta tra le mani un disco dei RHCP. L’abbandono (che sembra ormai definitivo) di Frusciante ha spinto la band di Los Angeles ad allontanarsi ulteriormente dai propri abituali lidi per spingersi in mare aperto e provare qualcosa di nuovo (ne è una prova anche la rottura con il loro storico produttore). Il risultato è un disco molto melodico, quasi intimista, molto sofisticato, una vera e propria sperimentazione su traccia dove la band ha lasciato i comodi ormeggi del funk rock per immergersi in atmosfere più spaziali e malinconiche, un tentativo molto coraggioso di abbandonare il proprio passato sostituendolo con le ambizioni musicali odierne. Il risultato finale spiazza non poco: da un lato i RHCP sembrano aver perso la spinta e il furore iniziale, dall’altro sembrano aver acquisito maturità e il disco si muove tra queste due consapevolezze senza che nessuna delle due riesca a prevalere. Questo sentimento di incompiutezza ci accompagna per tutto l’ascolto e influenza la valutazione che rimane comunque positiva: è un buon disco alla fine della fiera e le ultime tre tracce, “Encore” su tutte, mostrano un nuovo lato dei Red Hot Chili Peppers che potrà piacere o meno ma che sembra una strada tracciata in avanti e che il gruppo vuole seguire.
“The Getaway” e’ un disco che fa talmente schifo che rappresenta in modo perfetto sia la fine che ha fatto la band (ormai al tramonto della loro carriera), sia i brutti tempi che stiamo vivendo oggi.