The Coral: “Distance inbetween”. La recensione

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Si sa, gli album di ritorno sono sempre un rischio che non si riesce bene a calcolare e spesso sono solo la conferma del declino di una band che porta alla sua inevitabile fine. “Distance Inbetween” dei The Coral sfugge a questa logica e presenta la band inglese in maniera del tutto rinnovata e completamente diversa.

Dopo quasi mezza decade passata a lavorare ai vari progetti solisti (che spesso comunque coinvolgevano anche gli altri membri della band) i The Coral si sono riuniti per dare alle stampe il loro ottavo album. Nel frattempo c’è stato anche un cambiamento nella line-up, con il chitarrista Paul Molloy degli Zutons che ha preso il posto dello storico chitarrista Bill Ryder-Jones: con questo nuovo assetto i membri storici del gruppo, ovvero James Skelly (voce e chitarra ritmica), Ian Skelly (batteria), Paul Duffy (basso, sassofono e cori) e Nick Power (organo, tastiera e cori) hanno dato alla luce un disco che profondamente lontano dai lavori precedenti e che risulta nel contempo stesso dannatamente credibile.

Perchè sì, ammettiamolo, quei pochi che conoscono i The Coral li conosceranno probabilmente per la hit estiva “In the morning” del 2005, un pop estivo accattivante e fresco, e invece qui la band si prende una grandissima dose di rischi per produrre un disco molto più organico, complesso e pesante dei suoi lavori precedenti, registrato prevalentemente live in studio, prendendo spesso la prima registrazione e senza aggiungere quasi nulla. Una bella scommessa in un periodo dominato dall’autotune.

Distance inbetween” è il figlio spirituale di “The curse of love“, disco del 2014 pieno di materiale inedito e che sembrava aver mostrato il gruppo sull’orlo della rottura ma che ironicamente stava solo preparando un nuovo terreno fertile in cui le canzoni dei The Coral potessero innestarsi in un cammino musicale del tutto differente, quasi agli antipodi rispetto ai dischi precedenti. C’è una linea comune che demarca tutti i lavori dei The Coral e questa è un certo elemento psichedelico: in “Distance inbetween” questo elemento viene fatto definitivamente esplodere e nutrito con i mellotron, gli assoli di chitarra e le speculazioni sonore.

Parliamo del disco ora: il nuovo progetto dei The Coral è composto da 12 tracce per quasi 45 minuti di musica e si apre con “Connector” che mostra subito in quali territori musicali ci stiamo avventurando: siamo in un balzo tornati negli anni Settanta con il synth groove e i loop ipnotici guidati da una voce effettata e una chitarra ossessiva. Rimaniamo in questo campo e in questa era con “White bird” che richiama alla mente i lavori di grandi gruppi come gli America o i Chicago.

Front
The Coral – “Distance inbetween” – Cover

Chasing the tail of a dream” invece esplora il lato psichedelico della band e sembra una edizione riveduta e corretta di “Set the controls for the heart of the sun”, pezzo iconico dei Pink Floyd: la title-track, con la sua apertura dedicata al pianoforte, è una perfetta e cupa ballad con un perfetto bridge strumentale tra Santana e Papetti mentre”Million eyes” è temprata dalle insinuazioni dei cori e delle chitarre che aggiungono quasi un tocco gotico alla canzone che chiude non con un assolo di chitarra ma con un ending strumentale desertico da fare invidia ai Doors.

Con “Miss fortune” continua la strada intrapresa dal gruppo in questo viaggio mentre i tom-tom di “Beyond the sun” sono una sorta di legame con il passato della band e con il suo essere pop grazie anche agli arpeggi di chitarra ed alle linee melodiche disegnate dal mellotron, per quella che è forse la canzone più “pop” del disco in senso stretto: “It’s you” è invece una canzone di passaggio tra i due mondi grazie al suo pop malinconico e la sua coralità cosi marcata.

Con “Holy revelation” entriamo nel pieno territorio della sperimentazione musicale, dove i The Coral battono strade che non avevano battuto prima: il rock deciso, sporco e distorto di questa canzone ben si sposa con le atmosfere dilatate e dannatamente psichedeliche di “She runs the river” o con lo stoner rock di “Fear machine” sottolineato dalla voce distorta ed effettata di Skelly e che termina con un disperato assolo di chitarra che si perde nel vento e negli “End credits“, una sorta di cameo disegnato dal mellotron suonato come se fosse stato registrato in un vecchio disco a cera di un vecchio grammofono, una melodia sinistra e perfettamente in linea con le melodie ascoltate sinora.

E’ una tentazione molto grossa catalogare il nuovo disco dei The Coral come una sorta di miscuglio indie pop tra Noel Gallagher e Richard Ashcroft e sarebbe anche tecnicamente corretto ma “Distance inbetween” è di più: questo nuovo album segna il ritorno di un gruppo che si era perso per strada e deve essere salutato come uno dei rientri più clamorosi di tutto il 2016. E’ un disco lento, cupo, astratto, psichedelico e pur tuttavia manca ancora qualcosa alla descrizione: potremmo alla fine definirlo come “atto di coraggio” bello e buono. Scomparire per sei anni dalle scene musicali e ricomparire con un disco dove si combinano la psichedelia lo-fi e il krautrock sconfinando nello shoegaze non può essere definito altrimenti. E’ uno dei dischi più coraggiosi di quest’anno ed è probabilmente il miglior disco dei The Coral a 14 anni dal loro debutto musicale, oltre ad essere il loro lavoro più duro e più autentico,  più cupo e più denso di qualsiasi altra cosa abbiano mai suonato o registrato. Davvero un gran ritorno.

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