Deftones: “Gore”. La recensione

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Marzo 2014: Chino Moreno, frontman dei Deftones, formazione alternative metal statunitense, era impegnato a promuovere l’album omonimo del suo side-project Crosses e durante una sua intervista alla rivista Rolling Stone annuncia che il resto della band sta lavorando alle tracce di “Gore“, il nuovo disco, seguito di “Koi No Yokan“, parlandone come di un disco inebriante e particolare.

Passa un anno e lo stesso Moreno in un’altra intervista si sbottona di più: “Il disco è un po’ più tecnico rispetto a quelli precedenti. Non è un disco allegro ma non sarà un album completamente arrabbiato.” Nello stesso periodo viene annunciata come presenza nel disco il Jerry Cantrell degli Alice in Chains. Passa un altro anno e finalmente il chitarrista Stephen Carpenter ha dichiarato che l’uscita dell’album sarebbe avvenuta ad aprile del 2016, rilasciando una settimana dopo un’anteprima di “Gore“.

Anticipato dai singoli “Prayers/Triangles“, “Doomed user” e “Hearts/Wires” esce definitivamente “Gore” quasi tutti gridano al miracolo: i Deftones sono famosi per essere una band che suona quello che vuole senza molti compromessi e questa volta sono riusciti addirittura a superarsi e a superare se stessi. Ma andiamo con ordine. I cinque ragazzi di Sacramento, ovvero Chino Moreno (voce, chitarra), Stephen Carpenter (chitarra), Sergio Vega (basso, cori), Frank Delgado (tastiera, campionatore, giradischi) e Abe Cunningham (batteria), con l’aiuto del produttore Matt Hyde, confezionano un disco nuovo di pacca, l’ottavo della loro carriera, ed è un disco molto particolare: 11 brani per 48 minuti di musica varia e assortita, senza punti di riferimenti se non loro stessi.

Gore” parte proprio con il primo singolo di presentazione “Prayers/Triangles” che già ci mostra cosa  dobbiamo aspettarci da questo disco: è un pezzo di sicuro appeal, che si barcamena alla grande tra le linee chitarristiche così ampie, la voce di Moreno e un post-ritornello a dir poco brutale. “Acid hologram” mantiene tutte le promesse del titolo, grazie alle chitarre distorte, ai filtri vocali e al bridge veramente acido e inquietante mentre “Doomed user” si apre con una potente linea di basso e un riff molto heavy metal fino ad un ritornello arioso e stranamente melodico che mostra tutto il suo spessore musicale in pochissimo spazio.

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Deftones – “Gore” – Cover

Geometric Headdress” richiama mentalmente ai tempi di “Change (in the house of flies)” mentre “Hearts/wires” mette una bandierina rossa sul disco e si segna come canzone di svolta per tutto il lavoro, per le sue atmosfere tra il progressive e l’alternative rock che quasi sfociano nello shoemetal: direi che siamo in pieno nel mondo dei Deftones. Le due canzoni successive, “Pittura infamante” (si, avete letto bene) e “Xenon” sono tra i punti più bassi del disco, con il gruppo americano che strizza troppo l’occhio all’heavy metal quasi pop e perde parzialmente di vista il concept del disco.

Le atmosfere raffinate e shoegaze di “(L)Mirl” mostrano un lato che lascia spiazzati e la qualità del batterista Abe Cunningham di fondersi con la drum-machine ad un livello altissimo, per non citare la magnifica linea di basso, e con “Gore“, la title-track, viene fuori il lato minimalista e grezzo dei Deftones, con le chitarre che tagliano come lame l’aria con i loro riff al limite dello stomp. “Phantom Bride ospita il chitarrista e amico Jerry Cantrell in un brano diviso a metà, con la prima parte declamata dall’arpeggio e la seconda che invece dilata, devasta e distorce tutto, in una sorta di caleidoscopio impazzito: il disco si chiude con il power-pop pesante e astioso di “Rubicon” e con i testi di Moreno che non mostrano speranza o luce, ma solo cieca determinazione (“Place your faith into me/ Your body aches.” “Poni la tue fede in me/il tuo corpo soffre”).

Stavamo insieme in una stanza con uno che esprimeva un’idea e un altro che lo seguiva. I brani sono stati costruiti realmente come gruppo. Abbiamo cinque ragazzi che hanno visioni musicali completamente differenti, perciò quando tutto ciò funziona, funziona alla grande“: con queste parole Moreno ha annunciato “Gore” al mondo. Ci sono voluti sedici anni ai Deftones per replicare il successo di un disco come “White Pony” ma i cinque ragazzi di Sacramento finalmente ce l’hanno fatta: “Gore” riabbraccia mentalmente tutti i capisaldi di quello che è lo stile del gruppo e lo spinge molto, molto più in là, verso un territorio di ricerca e sperimentazione sonora senza precedenti per loro. Per carità, ci sono ancora le tensioni tra Moreno e Carpenter, ma questa volta sono finalizzate alla creazione del disco e non alla sua distruzione. Pur essendo molto variegato è un disco che porta con sè un marchio di fabbrica riconoscibile da subito: capisci che stai ascoltando i Deftones da ogni singola canzone e questo è un grandissimo pregio del disco: il secondo è che abbiamo davanti un signor album di new metal che ricorre a qualunque altro stile musicale pur di esprimere la sua idea e le sue canzoni, infischiandosene di generi e gabbie. “Gore” è un disco in cui sono mescolate tante cose ma dove ognuna trova la sua perfetta collocazione: un mosaico che da vicino dà pochi riscontri ma che da lontano mostra tutta la sua bellezza. E soprattutto è un disco che fa risorgere la musica rock nel 2016 in questo scenario digitale.

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