Mark Ronson: “Uptown Special”. La recensione

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Mark Ronson - Uptown Special - Artwork

Ogni volta che Sir Mark Ronson sforna un nuovo progetto discografico magicamente veniamo travolti dall’idea che sia un lavoro straordinariamente perfetto. “Uptown Special” è il quarto disco solista del famoso produttore e per una serie di motivi non smentisce la reputazione guadagnata dai suoi predecessori.

Essere un produttore ha i suoi vantaggi, ma questi ultimi non sono banalmente legati ai benefici economici o allo sbrilluccichio dello shobiz. Essere un produttore ti fa giocare sempre le carte giuste, soprattutto quando pensi ad un nuovo album e ti tocca reclutare gli amichetti del momento. Essere un produttore non ti fa sbagliare un colpo, soprattutto se hai un background ibrido tra New York e Londra, se hai collaborato con i nomi migliori della scena musicale mondiale e se in fondo, hai un pizzico di presunzione. Essere Mark Ronson vuol dire sempre mettere a segno il colpo giusto, con leggerezza, intelligenza e una consistente dose di buon gusto.

A rapporto per “Uptown Special” sono stati chiamati i migliori, e non solo i nomi più in vista del momento. Nella rosa convocata per il quarto album del dj e produttore inglese troviamo il fuoriclasse Stevie Wonder, accompagnato dalle nuove leve come Andrew Wyatt (Miike Snow) e Kevin Parker (Tame Impala), chiamati a smorzare i toni maledettamente pop fissati qua e là dal pluripremiato Bruno Mars. Il disco è immerso in una dimensione che ci riporta indietro di qualche decennio, rivivendo i generi funk e soul, tra ballate mid tempo e testi di grande spessore grazie allo zampino di Michael Chabon. Ogni singola traccia è stata concepita per essere parte di un insieme, ma allo stesso tempo è singolarmente un successo assicurato, ne è la prova il già diventato tormentone “Uptown Funk“.

Mark Ronson © Facebook
Mark Ronson © Facebook

All’attivo ci sono tante testimonianze che ci suggeriscono quanto Mark Ronson abbia sempre avuto le idee giuste per poter sfornare dischi apprezzabili, nonostante siano completamente differenti tra loro. Dopo le atmosfere da dancefloor e un “Version” interamente composto da cover, questa volta il produttore discografico ha deciso di rischiare, ma lo fa avvalendosi del supporto di tante sicurezze musicali.

Gli 80’s non lo abbandonano mai, anche influenze psichedeliche quali i vocalizzi del leader di Kevin Parker riescono ad adeguarsi ad un funk rivisitato, di valore e attuale che riesce a riportare in vita i sessanta, settanta e ottanta. Appena percepibile è un fil rouge musicale che parte dalla criptica “Uptown’s First Finale” per sfociare nella gigiona “Crack in the Pearl“, fino all’armonica onnipresente anche nel finale con “Crack in the Pearl, pt.II“.

Daffodils” è una piccola perla, ma la presenza di Stevie Wonder la vince su tutte. Un disco da apprezzare sicuramente, è una parentesi piacevole di questo momento musicale fatto di revival e di rivisitazioni. Le tendenze ci vogliono sempre più nostalgici del passato e della qualità di una volta, questa è un’ulteriore buona prova di come attingendo alle vecchie radici si riesce ad essere comunque attuali.

La vena nostalgica legata a Mark Ronson però ci porta sempre ad Amy Winehouse, la sua ricchezza soul e la sua ricercatezza discografica ci proiettano al futuro, speranzosi di ritrovare questo genere nelle prossime sperimentazioni musicali firmate Ronson.

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