Saint Vincent: “Saint Vincent”. La recensione

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E’ uscito il quarto disco di Annie Clark, meglio conosciuta come St. Vincent, artista eclettica americana che ha saputo colpire tutti con la sua musica così fuori dagli schemi.

A distanza di tre anni dal precedente “Strange Mercy”, Clark pubblica il suo nuovo disco omonimo composto da 11 canzoni per la durata di circa 40 minuti, ed è un disco indicativo della sua crescita personale come artista, ben distante dal precedente lavoro e che la eleva come uno degli esempi più interessanti della musica internazionale al momento.

La cantante americana, proveniente da Dallas nel Texas, ha nella sua vita affrontato varie esperienze musicali, da quelle con lo zio Tuck Andress del duo jazz Tuck & Patti a quelle nel collettivo pop-cul The Polyphonic Spree fino alla band di Sufjan Stevens prima di pubblicare i suoi album solisti che l’hanno portata alla ribalta della cronaca musicale americana e che hanno interessato anche un genio musicale come David Byrne. Ed ora, come ulteriore passo nella sua crescita musicale, ecco “St. Vincent“, un disco dove c’è dentro di tutto.

St_Vincent_artwork
St. Vincent – St. Vincent – artwork

Il progetto musicale ci accoglie con il pop elettronico e minimale di “Rattlesnake” che ci mostra come potrebbe essere la musica di Lorde se sono fosse più ritmata ed elettronica: subito dopo troviamo “Birth in reverse“, un anthem elettropop molto coinvolgente dal punto di vista musicale. Come terza canzone troviamo “Prince Johnny“, una canzone che in alcuni punti ricorda alcuni lavori dei Royksopp per la sua fusione tra musica, drum beat e cori.

Huey Newton” non si discosta dal filone del disco di elettro-indie pop ed ha una coda in crescendo cupa e distorta, completamente differente dall’atmosfera molto eighties di “Digital witness” che si richiama molto all’elettronica dei favolosi anni ’80 ed ai Talking Heads (non a caso David Byrne ha collaborato alla stesura del disco). “I prefer you love” si stacca completamente dal resto del lavoro con la sua melodia così lenta e da cheek-to-cheek .

Con “Regret” il disco torna alla “normalità”, se mai normalità si può definire questa strana mistura tra pop ed elettronica con le chitarre distorte e la voce effettata ad arte dove regna il controtempo (come in “Bring me your loves“) e la tastiera usata come batteria ossessiva (come in “Psychopath“). Il disco si avvia verso la sua chiusura con “Every tear disappears“, brano dal sound curioso ed al limite del dissonante ma per questo accattivante, e con “Severed crossed fingers”, altra ballad che lascia l’ascoltatore vagamente interdetto.

I testi del disco sono disparatissimi e molto diretti, a volte addirittura quasi brutali nella loro semplicità: si parla di serpenti che ci attaccano nella radura, di masturbazione, di leader politici, di distopia e dell’impatto che la tecnologia ha sulle nostre vite. L’artista ha dichiarato che subito dopo il suo ultimo tour ha deciso di mettere su carta tutte le esperienze vissute nel corso di quell’anno e mezzo e di raccontarle in una sorta di diario musicale.

Il nuovo lavoro di Saint Vincent è a dir poco particolare: ci troviamo di fronte ad un disco dove l’elettronica regna sovrana ma è asservita alle logiche dell’indie pop e dove le melodie vagamente fuori tempo e le chitarre distorte trovano facilmente casa. Un album particolare, che non piacerà a tutti proprio per questa sua natura sperimentale e fuori dai canoni, ma che ha dei suoi punti di eccellenza (“I prefer you love” e “Birth in reverse”) in un mare magnum di sperimentazione e atipicità. Un disco da scoprire.

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