Piegati dall’irrefrenabile desiderio di hype, anche i The Black Keys hanno ceduto al fascino dello streaming in anteprima con il disco “Turn Blue”.
Sebbene le previsioni e i piccoli assaggi musicali avessero lasciato in noi qualche amara espressione, non abbiate paura, qualche parvenza latitante di blues ma una notevole traccia psichedelica sono presenti nel nuovo partorito dal duo di Akron.
Tranquillo, sensuale e sporco quanto sperato l’ascolto si apre con “Weight Of Love”, pinkfloydiano quanto basta, 70’s quanto previsto e variegato nell’offerta musicale e ben lontano dall’apripista “Fever”, ormai già tormentone. “In Time” è il secondo brano del disco dei The Black Keys, arriva dopo una traccia piuttosto lunga e sembra continuare un discorso lasciato in sospeso con “Brothers” del 2010, disco a metà strada tra un blues con venature soul e un intermezzo pop molto apprezzato. In questo momento ci sembra molto lontana la parentesi di “El Camino”, felicissimo momento discografico per Dan Auerbach e Patrick Carney, abbastanza comune, popolare e apprezzatissimo dalle radio. Uno slancio rischioso per chi, nato con barbone e camicia, aveva cominciato in club intimi, con una chitarra e una batteria molto acerbe alla ricerca delle sonorità più vecchie e affondati radici in decenni piuttosto lontani.
Ricorda un po’ “The Go Getter”? Arriverà a smentirci subito “Turn Blue”, traccia simbolo dell’intero album, amica fedele della hit “Fever”, dalle note nervose, rapide e piuttosto movimentate rispetto all’inizio calmo, tranquillo e rilassato quanto basta. Su quest’ultima traccia è meglio non dilungarsi molto, nonostante abbia rappresentato questa nuova uscita discografica per i primi mesi di vita “Fever” non sembra reincarnare il pensiero filosofico di un album come questo, profondamente ispirato da ben altro.
“Year In Review” ci fa riconoscere ancora una volta i due di Brothers, e ancora una volta le impressioni che abbiamo avuto all’inizio sono riconfermate, rispetto agli esordi l’introduzione di una band a supporto si sente, si avverte e i suoni corposi si fanno sempre più insistenti avvolgendo gli ampi assoli di chitarra di Dan, come sempre capace di attrarre con la sua voce, e rendere tutto così psichedelico da lasciarci le penne. Lande desolate coloratissime e dalle sfumature blu appaiono davanti ai nostri occhi durante l’ascolto di un album come questo così variegato e così ipnotizzante.
“Bullet In The Rain” è la traccia che aspettavamo, è la conferma di quel suono pinkfloydiano che avevamo individuato all’inizio, così nostalgico ma così rinnovato in alcuni momenti musicali sapientemente miscelati a nuovi accordi e ad un rock acerbo molto contemporaneo. Straordinario come brani che abbiano una lunghezza progressiva non risultino mai noiosi o ripetitivi, complice l’alternarsi di distorsioni appartenenti alla chitarra di Dan Auerbach e un’incalzante batteria come sempre protagonista della musica del duo grazie alla tenacia di Patrick Carney.
La fine dell’album procede tranquilla, con evidentissime parvenze di soul, smentite a tratti dalle distorsioni tipiche del blues vecchia maniera, con uno sguardo rivolto al decennio lisergico e variopinto per eccellenza. “Gotta Get Away” chiude l’album quasi alla country maniera, alla quale rimangono sempre fedeli in alcune influenze i nostri amici The Black Keys nonostante il registro stilistico sembra esageratamente cambiato.
La prova sembra essere passata, le popolari scenate di “El Camino” ce le siamo lasciate alle spalle e se quelli che apprezzavano i The Black Keys fin dagli esordi già si strappavano i capelli da disperati probabilmente avranno da ricredersi dopo l’ascolto integrale di “Turn Blue”.
Divideranno le opinioni, piaceranno, non piaceranno e si faranno odiare, ma possiamo affermare a gran voce che probabilmente questi camaleontici passaggi musicali fanno dei The Black Keys la band più versatile, apprezzata e attesa in discografia del momento.