E’ uno dei bluesman più apprezzati al mondo, gira i cinque continenti con la propria musica, ma è italiano: Roberto Ciotti ha appena pubblicato “Equilibrio precario”, il suo nuovo album, in cui ripropone il suo stile inconfondibile, quel blues mediterraneo che ormai suona da oltre 40 anni. Molte novità in questo ultimo lavoro del bluesman romano, a cominciare da nuovi sonorità e strumenti utilizzati nella realizzazione, come loop e tastiere, per continuare con la presenza di 3 brani nella tracklist in italiano. Noi di MelodicaMente abbiamo avuto modo di parlare con Roberto Ciotti: una chiacchierata che ha spaziato dalla crisi della musica in Italia al ruolo del blues, fino alle collaborazioni e alle glorie del passato.
“Equilibrio precario”, il Suo nuovo album, potrebbe essere definito un “prodotto della crisi”: Lei stesso ha dichiarato come la crisi non solo economica, ma anche di valori di oggi L’abbia ispirata. Qual è la chiave con cui ha interpretato questa situazione e che ritroviamo nell’album?
Questo CD è nato più di un anno fa, già si cominciavano a sentire i segni della crisi, soprattutto nella mancanza di organizzazione dei concerti. In Italia già abbiamo dei problemi di cultura musicale, viene vista in modo provinciale, per così dire, anche se in certi periodi, abbiamo fatto delle belle cose, ma in periodi come questo diventa tutto più difficile. Io ho sentito molto addosso il peso della crisi: ho sempre lavorato sul confine, sono andato molto all’estero ed ho scritto “Equilibrio precario” (title track, ndr) spinto da questo. L’album in buona parte dei testi ha quest’impronta pessimistica, anche se la musica rimane come sempre solare, che ha molto del mediterraneo. Da questo il mio modo di fare blues mediterraneo, così lo chiamano all’estero, perché, pur non facendo canzoni all’italiana, il senso melodico sia vocale che di chitarrista è italiano. Il 2012 è stato un anno pesante, hanno annullato molti miei concerti, però mi è stata data un’altra opportunità: mi hanno chiamato dall’Africa a rappresentare al Saint Louis jazz Festival in Senegal, poi sono stato a Dakar e ci tornerò. Venti giorni fa, invece, sono stato a Bratislava. Mi stanno chiamando un po’ dappertutto, perché mi sono reso disponibile a viaggiare, ed il risultato è molto soddisfacente.
Un suono più personale, molto maturo, moderno sebbene profondamente blues, che torna allo scopo originario di denuncia e lamento della società. Una crescita continua nonostante anni di esperienza alle spalle. Dove si riescono a trovare stimoli sempre nuovi?
Del momento che vivo cerco sempre di prendere le cose che condivido. Ad esempio, dal 2002, quando realizzai “Behind The Door”, fino al 2007 con “Unplugged”, ma fino anche a “Troubles And Dreams”, ho avuto un’influenza delle sonorità sud americane con molte percussioni. In questo disco volevo sperimentare un po’ la modernità dei suoni digitali di loop, tastiere e altri strumenti simili. Ci ha lavorato su per un anno circa, poi ho sfrondato di alcune parti ed ho lasciato solo un piccolo accenno di questo suono moderno nel mio tipico vintage, ma che fa la differenza rispetto agli altri dischi. Sono molto soddisfatto del lavoro fatto, ma per il futuro vorrei tornare alle origini, l’esperienza in Africa mi ha colpito tantissimo.
Elemento di novità di “Equilibrio precario” è la presenza di ben tre brani in italiano (“Equilibrio precario”, “Occhi blu” e “Scusami luna”), una lingua che solitamente non si accosta al genere che Lei suona. Come mai, quindi, questa scelta di cantare in italiano?
Già nel precedente album, “Troubles And Dreams” era contenuto un brano in italiano dal titolo “Stanotte Roma”, che ha funzionato molto. Dopo molti anni in cui ho cantato in inglese, mi sento un po’ strano con l’italiano, ma mi ha incoraggiato il risultato di questa canzone. In più mi piaceva l’idea che la gente capisse il testo, soprattutto per “Equilibrio precario” e “Sposami luna”. E’ stato un esperimento che spero il pubblico capirà.
Nell’album sono presenti due tributi a due leggende del blues, Jimi Hendrix e Van Morrison, di cui ha realizzato nuove versioni, rispettivamente, di “Hey Joe” e “Moon Dance”. Qual è stata la lezione che ha appreso da questi artisti? E come si può riadattarla ai tempi e al sound di oggi?
La musica di oggi si basa su questo, la musica del ‘900 nasce dalla fusione tra Africa e Europa che avviene nel continente americano, qualsiasi genere viene da questo. In più, la maggior parte dei bei brani in circolazione è ispirata ai classici. Quello che manca alla gente, secondo me, è la cultura musicale, i giovani dovrebbero avere una memoria storica maggiore per poter distinguere le cose di qualità da quelle che non lo sono. Per questo ho voluto mettere due cover, per spronare i giovani ad interessarsi alle origini della musica, che poi è la musica di oggi.
Tra le Sue esperienze passate, si può annoverare anche quella di autore di colonne sonore, basti citare “Marrakech Express” di Salvatores, ma è anche stato tournista ed è attualmente autore ed interprete. Molte sfaccettature del medesimo artista, ma ce n’è una che prevale o che Lei sente più vicina alla Sua natura rispetto alle altre?
Ciò che ho sempre amato tantissimo sono i viaggi, suonare in giro, le esperienze, successivamente ho imparato a lavorare in studio e mi sono appassionato anche lì. Le colonne sonore sono nate da incontri con persone con le quali mi trovavo bene, ho fatto alcuni film, sono andati bene, adesso è da un po’ che non me ne occupo. Si vede che anche il cinema sta andando da un’altra parte… L’incontro con questo mondo, però, è stato molto bello, con Salvatores è stato un grande successo: lì è stata una comunità d’intenti, io non lavoro su commissione, ciò che faccio o piace o no.Quando c’è affinità di contenuti e di intenti, le cose escono immediatamente e con grande passione.
Nel 2007 ha pubblicato “Unplugged – Una vita senza fili”, la Sua autobiografia. Cosa l’ha spinta a dedicarsi a questo progetto? E quanto è stato difficile, se lo sia stato, mettersi a nudo in questo modo con il pubblico?
Il progetto non è nato da me, ma da Alberto Castelvecchi, che è un editore molto coraggioso che ha fatto grandi cose. Mi ha sentito suonare, ha visto la mia storia mentre suonavo e mi ha spinto a scrivere. Ci ho messo tantissimo, un anno e mezzo, perché non avevo mai scritto un libro in vita mia e dovevo imparare a farlo. Il fatto di mettermi a nudo non mi preoccupava, lo faccio da quando ho 15 anni, perché quando fai blues la prima cosa che devi fare è metterti a nudo e cercare di dire la verità. Questa è la filosofia del blues. E’ stata un’esperienza bellissima.
In Italia si tende sempre a parlare di blues come un genere di nicchia, riservato a pochi, per lo più intellettuali, mentre all’estero è un vero genere mainstream al pari del pop o del rock. Lei come giudica la situazione del blues nel nostro Paese e quale futuro prevede per esso?
In Italia, come un po’ in tutti i Paesi, le cose vengono viste in modo un po’ distorto. Da noi il blues è un genere da intellettuali… e pensare che è nato dal popolo! Intellettuale è arrivare a capire da dove arriva, ma la musica blues nasce dagli ex schiavi americani. Ho scritto una nuova canzone a Dakar: lì di fronte c’è un’isola, da cui sono partiti i primi schiavi africani dell’800, sono arrivati nel sud degli Stati Uniti, hanno creato il blues e da questo blues sono nati il jazz e il rock, fino ad arrivare in Europa. Io ho voluto riportarlo in Africa, lì dove ho avuto un riscontro bellissimo con i musicisti, i critici, le tv. In Italia ci sono molti giovani che se ne interessano, ma non basta suonare i pezzi, bisogna essere musicisti ed artisti, avere un’identità tale per cui il blues diventa soltanto un terreno su cui coltivare la propria esperienza e la propria musicalità. In Italia c’è tanto talento, ma viene sprecato dalla politica e dalle situazioni non positive per i musicisti, questo è il guaio del nostro Paese.